«I poveri sono tornati». Non vogliono essere salvati, vogliono parlare. Quattro attori sulla scena si alternano in una quadriglia di ruoli. Un poliziotto, un povero, un muto e un cavallo in sgargianti abiti da supereroi americani, con un tocco da Elvis Presley spagnoleggiante. Un enorme cactus parlante e una cabina per le foto automatiche coronano la scena dalle forti tinte pop di Zorro (in scena dal 23 gennaio al 16 febbraio 2025 al Piccolo Teatro Grassi) in cui Latella distrugge l’immagine di tutti i supereroi. Sono ricchi mascherati che vivono nell’illusione di appartenere alla parte giusta, quella dei difensori. Indossano una divisa, come i poliziotti dividono il mondo in ricchi e poveri, buoni e cattivi. Ma il poliziotto si rivela essere molto più vicino al povero che al supereroe, una questione di classe. Una volta tolta la maschera, Zorro torna ad essere il ricco possidente Don Diego de la Vega, mentre il poliziotto si barcamena fra le quotidiane difficoltà economiche e familiari, cercando di mantenere lo stile di vita che la società ha cucito per lui.
Ogni volta che viene pronunciata la parola “segno”, dalla famosa zeta con cui Zorro marchia i suoi nemici sconfitti, la studiata quadriglia di ruoli porta a un cambio di situazione, creando nel primo tempo quattro diverse cornici: la povertà della lingua, il documento, la convenzione del finto appuntamento, i supereroi. Ogni cornice si conclude con un brano cantato e suonato che trasforma la scena teatrale in un concerto ora rock, ora soul-pop. Un poliziotto ignorante si trova a parlare con un insolito povero istruito, pulito e vestito elegantemente. L’uomo in uniforme fatica a riconoscere la sua povertà, in mancanza dei segni che convenzionalmente la caratterizzano e che gli permettono di confermare la sua visione del mondo, divisa tra i pronomi Noi e Voi, coloro che impugnano l’arma e coloro sui quali è lecito usarla per mantenere l’ordine.
È una questione di diversi modi d’intendere l’identità. Il povero ha una consapevolezza di chi è, perché non possiede un’uniforme dietro la quale nascondersi. S’identifica col proprio pensiero, perché è l’unica cosa che non può essergli tolta. Il poliziotto, invece, sa chi deve essere e come deve comportarsi. Chiede al povero un documento per identificarsi, ma egli non lo possiede e mostra provocatoriamente i genitali. È la polarità dei punti di vista su cui si basa l’intero spettacolo. Il documento come sufficiente riassunto di un’identità oppure come fonte da cui leggere e documentarsi. Poliziotto e povero rappresentano due mondi inconciliabili, che però condividono il fatto di non essere ricchi. Lo spettacolo gioca sulle convenzioni del teatro e dell’immaginario collettivo: il povero puzza, è sporco, è esteticamente riconoscibile. Un attore fa un povero stanislavskiano, che rabbrividisce per il freddo nel caldo della sala, un altro interpreta un povero brechtiano che convenzionalmente attende all’appuntamento con il suo Godot.
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Ripetutamente viene rotta la quarta parete, gli attori si rivolgono al pubblico che scoppia in frequenti risate, consapevole del privilegio di potere ridere di chi non è presente in sala. Perché a teatro non ci vanno né i poveri né gli afroamericani, ma i ricchi e forse i supereroi. Gli attori allora ricercano fra il pubblico un Superman, uno Spiderman, un Hulk, una Wonder Woman, li criticano, distruggono la convenzione che li dipinge come validi difensori dei poveri e dei deboli, i quali non vogliono più essere protetti, ma essere ascoltati, lasciati vivere liberi.
Latella affronta la povertà come un insieme di mondi sommersi che l’Occidente ha scelto, per secoli, di soffocare e non ascoltare. I poveri delle carceri sovraffollate italiane, quelli che si stanno moltiplicando nelle strade della California, i popoli indigeni americani che sono stati sterminati, poveri perché incapaci di concepire la proprietà privata. I poveri si moltiplicano nel mondo e il mondo deve smettere di moltiplicare, spiega il poliziotto ridotto al lastrico, abbandonato dalla moglie. L’uomo ha già consumato due continenti con la propria ossessione per l’aumento, per la produzione. La parabola della moltiplicazione deve tramutarsi in quella della divisione di ciò che già abbiamo. Le ultime parole di denuncia sono lasciate a uno Zanni che somiglia a Zorro, vestito e mascherato di nero, che con una lunga invettiva prevede un mondo in cui i poveri torneranno alla ribalta, si prenderanno gli spazi dei ricchi, partendo dal teatro, riemergeranno dal fondale in cui sono stati relegati. Quella di Latella è una riflessione scoraggiante e comica nella sua deprimente verità.
È una risata crudele e fine a se stessa perché non raggiungendo i poveri non produce un dialogo. Lo spettacolo ne è consapevole e sceglie comunque di provare a parlarne, denuncia e al contempo sancisce la differenza di reddito e la separazione fra gli spazi. Al Piccolo i poveri non entrano, fuori dal teatro forse non li ascolteremmo.