Eravamo completi estranei fino a una settimana fa e ora, nel nostro isolamento, diventiamo fratelli, siamo figli di una stessa solitudine. C’è qualcosa di religioso, di archetipico in tutto questo.
Il mondo là fuori ci raggiunge in modo surreale, attraverso videochat e messaggi vocali.
Ultimamente, aborrisco i social media, le chiamate di mia madre, tutto ciò che mi collega all’esterno. Ho voglia solo di cose reali: il sapore del cibo, una partita a carte con L., ascoltare della buona musica. Ogni giorno, imparo qualcosa su L., qualcosa su di me, sul vicino al piano di sopra.
Mi sento come un pipistrello, i miei sensi sono amplificati. La solitudine mi sta trasformando in una specie completamente diversa di essere umano, vivo una vita a metà, ma questa metà la percepisco integra, abbondante, salvifica. L. mi sta trasformando, e io trasformo lui: ci mutiamo a vicenda condividendo la stessa solitudine. Potremmo conoscerci da sempre.
Un uomo e una donna soli, chiusi dentro, e fuori c’è una pandemia. È buffo, eppure suona familiare. Sembra l’inizio di una barzelletta. Anzi, di uno spettacolo teatrale, come Zombitudine della compagnia Frosini-Timpano. No, non sono uscita di casa per andare a teatro, figurarsi… anche se avessi il fegato di trasgredire l’isolamento, non sarebbe stato comunque possibile: le porte dei teatri hanno chiuso molto prima che noi chiudessimo quelle di casa nostra.
Zombitudine è uno spettacolo del 2017, ma per me risale già a un’epoca diversa, quando la parola solitudine aveva un significato esistenziale, sociologico, spirituale, quando ancora non era fisicamente possibile. Questo concetto di solitudine ora è inattuale: siamo tutti soli, fisicamente isolati nelle nostre case, soli come gli uomini prima di Internet, soli come dovremmo essere.
Non posso lasciare il mio appartamento. Non posso andare a teatro. Li guardo in streaming, adesso, gli spettacoli; se ancora si possono definire tali, quei fantasmi, quegli ologrammi, quegli omuncoli sgranati sullo schermo che posso fermare in qualsiasi momento per andare al bagno o preparare il caffè, che posso far tornare a muovere quando voglio, che posso mandare avanti e indietro, anticipare e prevenire. Però sono tutto ciò che mi resta di quel teatro che mi faceva rabbrividire, commuovere, divertire prima che il mondo impazzisse, e perciò lo guardo.
Fino alla fine, io lo guardo.
Mi prendo il mio tempo, spengo il telefono come farei andando a teatro. Mi prendo anche il mio spazio! Non mi metto sul divano, o stesa a letto: resto seduta su una sedia, alla mia scrivania. Mi dico, devo dare dignità a questo teatro zombie, che vive e non vive in questa videoregistrazione dalla qualità scadente. Due comici si stanno esibendo in casa mia, per me. Posso fisicamente fermarli quando voglio, mandarli avanti, tornare indietro, ma non lo faccio.
Elvira Frosini e Daniele Timpano stanno lì, e parlano, agiscono davanti ad un sipario chiuso, oltre il quale sta succedendo qualcosa che noi possiamo vagamente intuire: sembra un assedio, a giudicare dai rumori che provengono da “fuori” e da ciò che stanno dicendo i due attori, che qui interpretano il ruolo dei guardiani della soglia, che mediano tra il pubblico dentro e il mondo fuori. Esortano il pubblico a prendere una posizione, ma al tempo stesso a stare seduti, dentro, al sicuro: ci dicono «fuori dal teatro non c’è salvezza» e altre frasi fatte e rifatte. Denunciano un fenomeno che annulla l’individuo, che lo trasforma in un morto che cammina. Dalle prime battute, è già noto che si stia parlando non di fantascienza, ma della realtà sociale del consumismo di massa.
All’inizio li guardo, e non provo nessuna emozione. Nessuna emozione nuova, intendo. Niente che non abbia già provato da qualche settimana a questa parte. Sento che il vero spettacolo non è lì, sul proscenio, dove recitano i due attori, ma è oltre quel maledetto sipario chiuso che non vogliono aprire. Le battute degli interpreti mi annoiano, sono frustranti, cerebrali, irritanti. Mi rendo conto che posso parlare agli attori; loro due non sono veramente lì, non mi possono sentire, posso offenderli, posso essere il peggior tipo di spettatore possibile. Gli dico: non me ne frega niente delle vostre riflessioni sul capitalismo, vi scongiuro, fatemi vedere cosa c’è lì fuori! Ho un bisogno spirituale di vedere quel sipario che si apre. Ma dura poco, come ogni bisogno spirituale.
C’è un’apocalisse zombie in corso, a quanto pare. Non riesco a immaginarmi questi “zombie” come se fossero la metafora del consumismo, come lo spettacolo vorrebbe farmeli immaginare. Nella mia mente, invece, loro indossano una mascherina e vagano per le farmacie in cerca di Amuchina.
Gli zombie che immagino hanno in comune con quelli dei Frosini-Timpano una certa attitudine allo stare insieme, ammassati. Loro sono tanti, sono arrabbiati, spaventati, frustrati, e man a mano che lo spettacolo va avanti, il confine tra massa e individuo si assottiglia, finché loro non diventano noi.
Provo d’un tratto ciò che io sto vivendo in questi giorni con L., e lo riverso inconsciamente su questo palcoscenico digitale: sento di conoscere Daniele ed Elvira da una vita, quasi come se fossero miei fratelli, miei cloni, come se fossi io stessa a manovrarli con la forza del pensiero, come se fossero marionette. Prevedo ciò che diranno, so già come si muoveranno.
Sono prevedibili, giustificati. Perfetti.
Quando alla fine il sipario si solleva, io ho già perso la mia curiosità. Non è una sorpresa che il mondo fuori e il mondo dentro siano un medesimo concetto: non c’è niente da vedere, là fuori. Specialmente adesso. Siamo tutti quanti immersi nella stessa situazione, nella medesima solitudine. È impossibile essere individuali, in una quarantena che non si esaurisce alla tua casa, alla tua città, alla tua nazione, ma alla tua intera esistenza che viene tagliata fuori dal mondo! Possiamo sforzarci di resistere, di dire che leggiamo libri per passare il tempo, guardiamo Netflix, cerchiamo il teatro in streaming, scriviamo poesie, recitiamo monologhi, videochiamiamo la nonna, prepariamo torte, ma alla fine, nel profondo, in questo momento specifico della storia, i nostri pensieri sono sempre, precisamente, perfettamente identici a quelli del nostro vicino di casa. Lo stesso vicino che mai abbiamo visto in faccia, ma che ora sappiamo che dalle 12:30 alle 13, ogni giorno, da una settimana, passa l’aspirapolvere in salotto, in preda alla noia e al bisogno patologico di fare qualcosa, non importa cosa, ma che sia qualcosa! Come possiamo biasimarlo? Io cucino dolci. Il mio coinquilino gioca al computer. Tutti hanno il loro maledetto tic da morto vivente, in questo periodo.
E io. che mi crogiolo nella mia solitudine – nella nostra solitudine di massa – spalanco la finestra, mi ci siedo accanto. Godo della compagnia, dei rumori di un uomo senza volto con l’aspirapolvere in mano, di un ragazzo che ha le sbarre alla finestra di fronte e suona il timpano, della bambina che piange al piano di sopra: faccio questo, perché trovo tutto questo, in ogni caso, molto più umano di quelle figure pixellate sullo schermo del pc o del mio cellulare, che sono morte, per me. Perché ogni spettacolo muore dopo gli applausi finali del pubblico, dopo che il pubblico smette di esistere, e gli spettatori tornano ad essere cittadini, lavoratori, madri, padri, figli, studenti, critici teatrali.
Il teatro non è fatto per stare da soli. Eppure noi ora non lo siamo, non individualmente: siamo un’orda di persone sole, che tentano disperatamente di non essere ciò che sono, che attendono un segno, un via libera per tornare a fare gli individui distinti, con il loro lavoro, le loro relazioni, i loro spettacoli…
C’è però una sostanziale differenza tra la nostra solitudine e la solitudine liquida della mass-society: ciò che ci rende un gruppo, adesso, è qualcosa di umano. Una fragilità di massa, questo è ciò che percepisco. C’è della fragilità, dell’umana precarietà, in questa situazione liminare di attesa, in questo essere «aspettatori» delle nostre vite. Non siamo mai stati così vivi come lo siamo adesso che stiamo vivendo, tutti insieme, una non-vita.
Per una volta, si sta creando un fenomeno di massa a partire da uno stato d’animo, e non a partire dall’ultimo modello di Iphone o dalle «mutande di Calvin Klein», come invece viene denunciato in Zombitudine. Forse “massa” non è nemmeno la parola giusta per descrivere ciò che siamo ora.
Penso che la parola corretta sia comunità. Sì, la comunità…
C’è voluta una pandemia per farmi capire la differenza tra massa e comunità, affinché la percepissi, che si rendesse tangibile. Non mi ero mai resa conto di come fosse diventato difficile dividere, oggi, questi due concetti.
Laura Astarita
]]>L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.
Una risposta
Chapeau. Bravissima.