Dapprima c’è il fastidio.
Non che sia un sentimento particolarmente originale, ultimamente. Siamo più infastiditi e più fastidiosi del solito, da una decina di giorni a questa parte e lo resteremo ancora per un po’, a quanto sembra. Ma tant’è. Il fecondo attivismo culturale delle ultime settimane sembra destinato a scatenare solo due tipi di reazioni: il plauso entusiasta di quelli per cui “è bene far qualcosa, #laculturanonsiferma, se ci chiudono i musei noi ci droghiamo di tour virtuali, vedrò il MoMA restando sul sofà, e se non possiamo andare a teatro, ebbene, vedremo gli spettacoli in streaming!”, sinceri e volenterosi guerrieri dell’intrattenimento culturale che non si rassegnano al congelamento di tutte le attività; e poi, dall’altra parte, c’è – appunto – il fastidio. Una reazione probabilmente più raccolta, più introspettiva, propria di quelli che si sforzano di farci notare che una mancanza, un’assenza, non va per forza colmata. Va piuttosto vissuta.
Ho da fare subito una confessione: non ho ancora scelto un partito in cui schierarmi. Il più scialbo e strisciante dei peccati di un’articolista. Non mi va, devo ammetterlo, di mettermi a guardare il teatro in streaming. Lo diceva qualche giorno fa Simone Pacini: «Il teatro in video è brutto, noioso e nessuno lo guarda. Rassegnatevi. Meglio un libro o Netflix, o del vino», e forse sarebbe ora di cominciare ad ammetterlo, almeno a noi stessi. Di concederci il lusso di attraversare questo periodo di stranezza senza correre da subito ai ripari – ma, d’altronde, come biasimare quelli che invece reagiscono con prontezza? Non ci sarà, in fondo, un po’ d’invidia per tutti gli attori, i registi e i teatranti che dal giorno successivo al lockout si sono piazzati davanti a una videocamera e hanno cominciato a sfornare contenuti di qualità per intrattenere tutti gli altri?
C’è una piccola sperimentazione in corso ai microfoni di Rai Radio Tre che sembra offrire un appiglio a noi indecisi: ogni sera, alle 20:05, il programma Radio Tre Suite – Panorama trasmette una selezione in pillole di spettacoli teatrali registrati negli ultimi mesi. Così, ad esempio, lunedì sera sono stati trasmessi i primi quindici minuti di Se mi dicono di vestirmi da italiano, non so come vestirmi di Paolo Nori e Nicola Borghesi. Se si riesce a superare il primo momento di fastidio provocato dal sentire, in sottofondo, movimenti e risate di un pubblico da cui ci si sente esclusi (lo spettacolo è stato registrato a Bologna a novembre scorso) bisogna ammettere che questa trovata delle pillole di teatro non è poi così male. Certo, va vissuta in maniera diversa dal teatro canonico: la radio è decisamente meno immersiva dello spettacolo dal vivo e si può tenere accesa mentre si fa altro; d’altronde questo modo di vivere il teatro non ha la pretesa di sostituirsi allo spettacolo. L’impressione è piuttosto che si voglia in qualche modo mantenere vivo il contatto con il palcoscenico, allo stesso modo in cui un trailer o una scena iconica mettono voglia di godersi un bel film. La scelta dei testi da mandare in onda, poi, sembra azzeccata. Mi sorprendo da qualche giorno a riflettere sul fatto che, fino a qualche settimana fa, vedere una bandiera italiana appesa a un balcone mi trasmetteva un senso di pesantezza, facendo intendere – forse a volte inconsapevolmente – una connessione con un certo tipo di retorica politica che non mi apparteneva. In questi giorni, invece, la bandiera sembra avere assunto un significato diverso, più universale e più universalmente positivo; e infatti se ne vedono molte di più. Ri-ascoltare stralci del dialogo tra Nori e Borghesi, in questa nuova luce, può stimolare delle riflessioni interessanti su cosa in effetti ci rende italiani, seguendo il loro ritmo, ma riadattando le domande. Cantare ai balconi? Perché no. Non perdere di vista i lati migliori di noi stessi e della nostra cultura? Certamente sì.
Non che sia un sentimento particolarmente originale, ultimamente. Siamo più infastiditi e più fastidiosi del solito, da una decina di giorni a questa parte e lo resteremo ancora per un po’, a quanto sembra. Ma tant’è. Il fecondo attivismo culturale delle ultime settimane sembra destinato a scatenare solo due tipi di reazioni: il plauso entusiasta di quelli per cui “è bene far qualcosa, #laculturanonsiferma, se ci chiudono i musei noi ci droghiamo di tour virtuali, vedrò il MoMA restando sul sofà, e se non possiamo andare a teatro, ebbene, vedremo gli spettacoli in streaming!”, sinceri e volenterosi guerrieri dell’intrattenimento culturale che non si rassegnano al congelamento di tutte le attività; e poi, dall’altra parte, c’è – appunto – il fastidio. Una reazione probabilmente più raccolta, più introspettiva, propria di quelli che si sforzano di farci notare che una mancanza, un’assenza, non va per forza colmata. Va piuttosto vissuta.
Ho da fare subito una confessione: non ho ancora scelto un partito in cui schierarmi. Il più scialbo e strisciante dei peccati di un’articolista. Non mi va, devo ammetterlo, di mettermi a guardare il teatro in streaming. Lo diceva qualche giorno fa Simone Pacini: «Il teatro in video è brutto, noioso e nessuno lo guarda. Rassegnatevi. Meglio un libro o Netflix, o del vino», e forse sarebbe ora di cominciare ad ammetterlo, almeno a noi stessi. Di concederci il lusso di attraversare questo periodo di stranezza senza correre da subito ai ripari – ma, d’altronde, come biasimare quelli che invece reagiscono con prontezza? Non ci sarà, in fondo, un po’ d’invidia per tutti gli attori, i registi e i teatranti che dal giorno successivo al lockout si sono piazzati davanti a una videocamera e hanno cominciato a sfornare contenuti di qualità per intrattenere tutti gli altri?
C’è una piccola sperimentazione in corso ai microfoni di Rai Radio Tre che sembra offrire un appiglio a noi indecisi: ogni sera, alle 20:05, il programma Radio Tre Suite – Panorama trasmette una selezione in pillole di spettacoli teatrali registrati negli ultimi mesi. Così, ad esempio, lunedì sera sono stati trasmessi i primi quindici minuti di Se mi dicono di vestirmi da italiano, non so come vestirmi di Paolo Nori e Nicola Borghesi. Se si riesce a superare il primo momento di fastidio provocato dal sentire, in sottofondo, movimenti e risate di un pubblico da cui ci si sente esclusi (lo spettacolo è stato registrato a Bologna a novembre scorso) bisogna ammettere che questa trovata delle pillole di teatro non è poi così male. Certo, va vissuta in maniera diversa dal teatro canonico: la radio è decisamente meno immersiva dello spettacolo dal vivo e si può tenere accesa mentre si fa altro; d’altronde questo modo di vivere il teatro non ha la pretesa di sostituirsi allo spettacolo. L’impressione è piuttosto che si voglia in qualche modo mantenere vivo il contatto con il palcoscenico, allo stesso modo in cui un trailer o una scena iconica mettono voglia di godersi un bel film. La scelta dei testi da mandare in onda, poi, sembra azzeccata. Mi sorprendo da qualche giorno a riflettere sul fatto che, fino a qualche settimana fa, vedere una bandiera italiana appesa a un balcone mi trasmetteva un senso di pesantezza, facendo intendere – forse a volte inconsapevolmente – una connessione con un certo tipo di retorica politica che non mi apparteneva. In questi giorni, invece, la bandiera sembra avere assunto un significato diverso, più universale e più universalmente positivo; e infatti se ne vedono molte di più. Ri-ascoltare stralci del dialogo tra Nori e Borghesi, in questa nuova luce, può stimolare delle riflessioni interessanti su cosa in effetti ci rende italiani, seguendo il loro ritmo, ma riadattando le domande. Cantare ai balconi? Perché no. Non perdere di vista i lati migliori di noi stessi e della nostra cultura? Certamente sì.
Ludovica Fasciani
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.