L’orizzonte della scena è coperto di teste, fissate ciascuna nella cornice lignea dei trofei di caccia. Un gruppo di giovani sulla sinistra, un gruppo di adulti sulla destra, separati al centro da un grande monitor. Sorry, boys di Marta Cuscunà è un intreccio di voci che raccontano una storia realmente accaduta, terza tappa del progetto sulle «Resistenze Femminili» (insieme a È bello vivere liberi! Vincitore al Premio Scenario Ustica, 2009 e La semplicità ingannata, 2012).
Il fatto è estremo: nel 2008 a Gloucester, piccola città del Massachusetts, diciotto ragazze della medesima scuola rimangono incinte nello stesso breve arco di tempo. L’infermeria è un viavai di sedicenni che richiedono test di gravidanza e ogni esito positivo scatena l’euforia del consesso nei corridoi. I primi a prendere parola sono il Preside e l’infermiera, accovacciati nella notte in qualche punto del cortile scolastico pronti a penetrare lo stabile e sottrarre i registri con gli acquisti delle centinaia di test, che se visti da qualche ispettore potrebbero destare il sospetto di una complicità della scuola. Il racconto comincia dunque sull’onda del rimorso di due responsabili del controllo, schiacciati dalla forza di volontà delle adolescenti determinate verso il loro scopo.
Il monitor centrale si fa presto schermo di un cellulare: le ragazze hanno una chat di gruppo nella quale si aggiornano sui risultati e sull’avanzamento delle gravidanze «Ragazze, ho le nausee!!!» con abbondanza di emoticon a sottolineare gli entusiasmi. Ma anche in questi scambi serpeggia un dubbio: «Lo diciamo ai ragazzi?». Sì. No. Perché no. Perché? La storia di Gloucester è indagata dall’attrice-autrice nelle sue ragioni profonde, avvalendosi di diverse fonti e documenti sul fatto, tra cui il documentario cinematografico The Gloucester 18: quali sono le motivazioni che sottendono il «patto» di maternità? Scopriamo allora, lungo il corso dello spettacolo, che la violenza sulle donne a Gloucester ha cifre astronomiche, denunce quotidiane che superano, alla fine dell’anno, i giorni messi a disposizione dal calendario. Uomini che picchiano, violentano, aggrediscono le loro mogli. È normale. Succede. Perché no? Una prassi che rischia di farsi eredità da una generazione all’altra. Che fare per spezzare questa catena? Le ragazze prendono ciò che ancora non gli è stato tolto, sole ma compatte, compiendo il gesto rivoluzionario che più gli è congeniale per fondare una nuova comunità, per trasmettere un messaggio a quella degli adulti.
Sorry, boys è una storia di voci. Le ragazze non compaiono mai se non nel suono delle notifiche dei messaggi in chat. Volti e corpi sono solo immaginati, ma allo stesso tempo sono sempre lì, vicine. Attorniano la scena con il loro sarcasmo e uno strano humor che rivolgono ora agli adulti (un gruppo di genitori, oltre ai due membri della scuola) ora ai ragazzi.
Questi sono particolarmente bambini. Mentre le neo-madri ci appaiono nel pieno della loro consapevolezza e conquistata maturità, i loro compagni scoprono il proprio corpo guardando film porno e dialogano senza filtri di rapporti anali e orali, bambole di carne da manipolare e sporcare con lo sperma, e ripetono in ostinata sequenza la descrizione-slogan del nuovo Terminator: «Non una macchina» «Non un uomo» «Molto di più!», sintetizzando così il loro ideale maschile.
Marta Cuscunà cammina dietro i pannelli che reggono le teste, abilmente create dall’artista e scenografa Paola Villani, mosse da un meccanismo manuale: i volti manipolati si muovono al ritmo del discorso con tutte le palpebre, le labbra, le guance e la fronte. Oltre al moto della muscolatura, l’attrice da sola dà voce ai tanti attori della storia. Uomini, donne, adolescenti, neri e bianchi, ogni maschera muove un carattere e un vissuto grazie alla puntuale incisione fonetica della Cuscunà, mai virtuosistica, attenta e focalizzata su ogni singolo personaggio, come attraversata lei stessa da vite e voci altrui di cui è possibile farsi solo medium. Un lavoro in trasparenza, dunque, che ci permette di ascoltare e vedere davvero il racconto al centro dello spettacolo, facendoci talvolta dimenticare che questo fumetto sonoro è l’azione continua di un’attrice in carne e ossa, profonda e bravissima nella sua interpretazione e nel parallelo saper fare spazio al teatro che costruisce.
La storia di Gloucester prosegue fino a una rivolta dei genitori tra le mura della scuola, mentre le ragazze gravide si sono rinchiuse in un’aula. Il piccolo coro di adulti si intreccia a un altro racconto, quello di una marcia di uomini a difesa delle donne maltrattate e violentate. Uomini che reagiscono agli uomini, da una parte, per le stesse ragioni che spingono le adolescenti a rifondare il proprio statuto, la propria autonomia. È anche per questo che i ragazzi sono esclusi dal patto: la fecondazione non faceva parte del gioco a cui si erano resi disponibili. Spaesati, sono costretti a riflettere, e si chiedono a che cosa servono, ora e al di là di quella situazione. Diversamente, forse, non sarebbero stati in grado di farlo. Ci dispiace, ragazzi.
«Sarà un casino» «Ma sarà merito nostro». Le chat non si fermano e nemmeno le riflessioni degli adulti. Nell’infermiera si accende una scintilla, e mentre fra sé e sé dice che forse «il patto è collegato al macello che è collegato alla marcia», la sua voce si trasforma e nessuna maschera più si muove. Le mani dell’attrice, visibili finalmente nella parte più bassa del pannello scenografico, si uniscono e si rilassano. Ora è la Cuscunà che libera la sua voce, abbandonando la massa di personaggi che ha retto fino a quel momento, e ci parla di forza, di un’energia «irrazionale e scomposta», la stessa che sta dietro la rivoluzione di un patto fra donne e di una marcia di uomini contro gli uomini. «Questo spiegherebbe il loro sorriso», dice con l’ultimo filo di voce l’infermiera. Ed è così che vediamo, finalmente, le diciotto adolescenti: sorridenti, ancora più adulte, ancora un po’ sarcastiche.
di Serena Terranova
foto di Alessandro Sala/Cesuralab per Centrale Fies
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.