Gioie e dolori nella vita delle giraffe scritto da Tiago Rodrigues, con la regia del giovane Teodoro Bonci Del Bene, si apre così, come un presagio di conflitti. In scena, quattro figure mutevoli e scomposte: la protagonista Giraffa (Carolina Cangini), la cui personalità sembra direttamente catapultata dal Bronx e dai block party, il peluche Judy Garland (Japoco Trebbi) plasmato sul movimento skinhead, il padre di Giraffa (Dany Greggio) che si riallaccia all’America Punk Rock di David Bowie dei primi anni Settanta, fino ad arrivare alla scena hip hop rappresentata da Pantera (Martin Chishimba). Da questi personaggi e dai mondi underground dai quali provengono si snoda la rappresentazione sulle note della canzone hip hop Decollo di Irol. Lo spettacolo racconta la storia di Giraffa, una bambina di nove anni orfana di madre che vive con un padre, scrittore disperato e disilluso, sommerso da problemi economici. Attorno a questo nucleo, fanno capolino le altre due figure che passo dopo passo ci fanno immergere nel percorso di ricerca subculturale alla base del progetto. La ragazzina non può guardare Discovery Channel perché «l’uomo che è suo padre» non riesce a guadagnarsi il denaro necessario e lei, per tutta risposta, inizierà a vagare per Lisbona alla ricerca del Primo Ministro del Portogallo, per chiedergli la possibilità di guardare il canale televisivo per la sua ricerca scolastica. Dagli interni di una casa (di cui quasi si può percepire il disordine dei piatti in cucina, la polvere sul divano e le mattonelle sporche) fino alle strade di Lisbona, anche se d’altra parte si potrebbe trattare di qualsiasi grande città. È da qui che Giraffa cerca di diventare grande, barcamenandosi nel mondo reale con gli occhi e la fiducia di una bambina. Se da un lato, però, quello che troverà fuori dalle quattro mura è un mondo crudele e disinteressato, forse è proprio in questa solitudine che si fa indipendenza che Giraffa trova l’energia della rivalsa, scostandosi dalle croste della dimensione della casa, coacervo di tensioni e frustrazioni. Nella crudezza del mondo fuori, ritrova la squadra che non ha mai avuto e un obiettivo da raggiungere, qualcosa per cui lottare. Negli incanti di questa fiaba contemporanea, estraniante e straniata, il linguaggio spesso sboccato (soprattutto quello del peluche che ha perso la simbologia di rassicurante oggetto d’infanzia) non nega una precisa analiticità del racconto. Ci si immerge, così, in una dimensione dalla doppia linea comunicativa: si alternano la narrazione dei fatti come se fossero dei ricordi (quando l’attrice protagonista parla agli spettatori) e l’azione in sé, come se accadesse in quel momento (resa, invece, attraverso il dialogo fra Giraffa e i personaggi sulla scena). Un fare analitico, però, per cui favola urbana diventa immediatamente underground. Si parte da un’idea precisa, infatti, di come sviluppare la resa. Ma lo svolgersi degli eventi nella creazione in scena può portare anche altrove, dove non ti aspetti. Lo spettacolo, per parte sua, sembra però non riuscire a discostarsi dalla patina underground impostata, non se ne distacca, anche quando forse, bisognerebbe lasciarsi cullare. Questo esperimento oscilla dunque, sia nell’approccio di lavoro sia nel risultato sul palco, tra dinamismo dei corpi e staticità delle posizioni dei personaggi, condensati entro i bordi delle loro personalità. È forse proprio qui il fulcro dello spettacolo: indagare l’identità di una società fatta di singoli individualisti e ricercare quali sono oggi le possibilità di riscatto.
Sofia Longhini
]]>L'autore
-
Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.