Dal 2 all’11 settembre si svolgerà a Bologna la ventesima edizione del festival Danza Urbana. Si può dire che il festival abbia inventato di fatto un ambito di ricerca, portando le arti coreutiche in contesti non teatrali come piazze, cortili, strade, cercando di volta in volta di instaurare relazioni con la città che non si limitassero alla semplice presentazione degli spettacoli. L’edizione del ventennale sta in questo solco e programma artisti la cui presenza è diventata nel tempo una consuetudine (Le Supplici, Simona Bertozzi, Enzo Cosimi, MK), organizza una giornata di studi e da spazio alla ricerca internazionale (Yoko Higashino, La Veronal e gli artisti selezionati dalle reti Masdanza Platform e Anticorpi XL) e a progetti di danza comunitaria come Corpogiochi di Monica Francia.
Abbiamo incontrato Massimo Carosi, direttore artistico e fondatore di Danza Urbana.
Massimo Carosi, vent’anni di lavoro nel nostro paese sono un piccolo miracolo. Come vi è venuto in mente di fare un festival di danza in spazi urbani?
Avevamo l’ingenuità dei vent’anni. Eravamo iscritti al Dams e, dopo avere frequentato il primo corso di Storia della danza, fondammo un circolo universitario. Volevamo infatti praticare la danza, oltre che studiarla. Organizzavamo seminari, laboratori, cicli di incontri sulla coreografia. Volevamo però fare un passo ulteriore e sperimentarci direttamente nella messa in scena. Non avendo però un luogo dove provare decidemmo di “usare la città” come spazio… era il 1996, il primo evento che organizzammo si chiamava Tra una colonna e l’ariaed era inserito nel programma estivo Bologna Sogna Open Festival. Si tratta a tutti gli effetti di un preludio del festival, era realizzato in quattro diversi punti della città, eravamo un gruppo bislacco con danzatori, musicisti, trampolieri… la risposta fu buona, la curiosità che avevamo destato ci parve ottima, ne uscimmo dunque galvanizzati, così nacque il festival.
La prima edizione è dunque nel 1997…
All’epoca pochissime erano le creazioni pensate per spazi urbani, spesso si trattava di committenze episodiche, eppure ci rendemmo conto di un certo interesse da parte dei gruppi giovani. Inizialmente il festival ospitava grandi spettacoli, spesso anche molto partecipati, spettacoli di gruppi esteri che richiamavano anche 1500 o 2000 persone, delle piccole folle. In un secondo momento abbiamo impostato una direzione di maggiore dialogo con la città attraverso lo sguardo degli artisti: fare in modo che danzatori e coreografi potessero manifestare dei punti di vista sulla città, sullo spazio pubblico, sul vivere in comune. Tale tensione deve restare aperta, offrirsi come un caleidoscopio di possibilità con alla base la relazione fra artista e città, e in questo senso abbiamo iniziato a ragionare negli anni a venire, fino all’oggi.
Nel tempo, dunque, siete arrivati a circoscrivere con chiarezza l’ambito di lavoro e il metodo che reggono il festival…
L’idea di fondo risiede nel proporre spettacoli e progetti di danza in spazi non convenzionali, spettacoli a volte nati appositamente per lo spazio urbano, altre volte frutto di un adattamento, mantenendo l’accezione stessa di “danza urbana” aperta, definendo con questo un ambito della scena contemporanea dai contorni larghi. Ogni edizione è frutto di percorsi complessi e articolati, dentro ai quali trovano spazio progetti di rete, azioni legate ai gruppi del territorio o ad autori emergenti e creazioni site-specific.
Quali sono le domande che hanno nutrito la presente edizione?
Vent’anni sono tanti, raramente ci siamo fermati per riflettere sul percorso che si è fatto. Anche per questo motivo, abbiamo pensato che fosse importante tentare di aprire un dibattito pubblico sulla danza in contesti urbani, sulla sua necessità e funzione. 20 anni fa possiamo dire di avere creato un “ambito” che prima non esisteva, negli anni si è trattato di presentarlo, raccontarlo, difenderlo, anche da una politica culturale che ha spesso faticato a riconoscere forme d’arte che non producono sbigliettamento. La danza di cui ci occupiamo spesso non può essere finanziata, dal momento che gli spettacoli sono gratuiti.
Domenica 4 organizziamo dunque un convegno, Città che danzano, come occasione non di promozione ma di dibattito e di costruzione di connessioni attraverso la presenza di diversi operatori anche internazionali. Rispetto al programma, ho voluto immaginare qualcosa di fortemente marcato dal ventennale, chiamando artisti che sono inscritti nella storia stessa del festival. Da una parte Fabrizio Favale (che ha debuttatto come coreografo proprio a Danza Urbana) e Simona Bertozzi, affiancati dal gruppo Phren, ensemble bolognese legato al lavoro del Centro Mousikè e che negli anni è cresciuto anche grazie ai diversi laboratori che Danza Urbana gli ha offerto. Le altre due figure invitate sono Michele Di Stefano e Enzo Cosimi, ai quali abbiamo chiesto due creazioni appositamente pensate per il festival. MK di Di Stefano presenta Veduta Bologna, esempio mirabile di un modo di intendere la scena contemporanea al di fuori degli schemi; Cosimi, partendo da una creazione qui presentata nel 2010, La stanza del principe, sta dando forma a una trilogia: lo scorso anno creò La bellezza vi stupirà, spettacolo che rifletteva sui senza fissa dimora, mentre quest’anno il lavoro di Enzo si è concentrato sull’anzianità e l’omosessualità. Presentiamo Corpus Hominisalla velostazione Dynamo, nell’ex rifugio antiaereo della Seconda Guerra Mondiale.
Il lavoro di Fabrizio Favale, Hekla (terzo studio su Circeo), invece, viene presentato sul sagrato di San Petronio…
Per me la danza urbana è sempre un atto politico, a diversi livelli, lo scrivo nell’editoriale di presentazione. Oggi si parla di “luoghi sensibili”, un termine legato alla pubblica sicurezza. Immaginerete le difficoltà che abbiamo riscontrato nel lavorare in un “luogo sensibile” come il sagrato di San Petronio. Credo che oggi sia davvero importante fare tornare a essere “sensibili” alcuni luoghi superando questa accezione legata alla sicurezza, occorre combattere una battaglia per difendere l’aggregazione, lo spazio pubblico oltre la paura, l’emergenza (al convegno di domenica ne parlerà per esempio Antoine Pickels). Il corpo, la libera espressione, la libera fruizione dello spazio pubblico: questi tre elementi fanno sì che la danza nel contesto urbano sia veicolo di democrazia.
Il vostro lavoro ha di fatto orientato un panorama, al punto che al fianco di “danza urbana” potremmo mettere senza problemi “danza di ricerca”
Siamo cresciuti con due generazioni di artisti che gradualmente hanno avvertito la necessità di operare in questo ambito, e che hanno ottenuto riconoscimenti anche grazie alla loro presenza qui. Penso ai già citati Le Supplici di Fabrizio Favale, a Simona Bertozzi, a CollettivO CineticO di Francesca Pennini, ma anche alla generazione precedente composta da Kinkaleri, MK e altri. La loro è stata una presenza costante sin dall’inizio, e credo che la danza in contesto urbano sia diventata per loro un’esigenza di ricerca poetica, la necessità di fare i conti con lo spazio aperto, con un pubblico meno “orientato”. Vent’anni sono un tempo che crea una consuetudine, oggi posso dire che la danza italiana stessa, senza la possibilità di performare nei contesti urbani, sarebbe monca.
Come è cambiato, in questi vent’anni, lo spazio pubblico della città? Nel tempo lo avete interrogato evocando concetti come arcipelago, passaggio, periferia, protesta…
In questi vent’anni lo spazi pubblico ha subito un processo che lo sta sempre più normando. Incombono sugli spazi pubblici restrizioni di diverso tipo: burocratiche, amministrative, legate alla sicurezza. Se lo spazio pubblico è una negoziazione fra libertà individuale e collettiva, oggi tale negoziazione tende a una limitazione. Per questo è bene che l’arte e la cultura fungano da presidio, si manifestino come possibilità di aggregazione e socialità. Non è un caso che in un contesto sociale così influenzato dalle reti online sia proprio la presenza dei corpi negli spazi pubblici a restare al centro delle battaglie politiche (le piazze delle Primavere Arabe, o del movimento Occupy, per esempio). Esserci, occupare per affermare la necessità di democrazia. In un contesto generale, lo ripeto, che sta limitando la possibilità di attraversamento anarchico dello spazio, credo che diventi ancora più urgente e forte la possibilità dell’arte di agire nello spazio pubblico in modo creativo, anche nella relazione con istituzioni che spesso non comprendono il senso delle nostre azioni. Mi è capitato di scontrarmi con logiche economicistiche, per esempio, per le quali gli spettacoli del Festival, essendo gratuiti, secondo alcuni sarebbero “svalutati”. Mi sono anche imbattuto in passato nella limitazione ad un uso culturale di alcune piazze, mentre invece era consentito quello commerciale o fieristico. Io però credo che queste difficoltà siano un indice della bontà del lavoro che si sta facendo: se è difficile, allora vuol dire che ce n’è bisogno.
Cosa hai imparato dal pubblico, dai tantissimi spettatori, che in questi vent’anni avete incontrato?
La danza urbana è capace di creare immediatezza, ci fa vedere che la nicchia dentro alla quale ci muoviamo in realtà può diventare ben grande, ampia, differenziata, e dunque forse smettere di essere nicchia. La danza urbana, se poi prosegue da vent’anni, crea consuetudine, famigliarità con codici non consueti, con linguaggi all’apparenza difficili. Oltre a questo è anche sempre un dialogo con la città, con l’idea di città che vogliamo e abbiamo.
Ho imparato che quando si crea un contesto il riscontro è possibile, e nel nostro caso c’è stato. Spettacoli ritenuti complessi sono stati apprezzati e applauditi da tante persone. Ho incontrato un pubblico curioso, senza sovrastrutture e che non ragiona per etichette, per forza di cose un pubblico spurio e per questo aperto. Anche i linguaggi più contemporanei possono arrivare a tanti, spesso porto a esempio lo spettacolo Serie B di Kinkaleri, presentato nel 2003. Un lavoro per due danzatori e due dj, con una struttura esecutiva aperta. Il richiamo della musica attirò tantissime persone nel cortile di Palazzo d’Accursio, che poi si fermava incuriosita e un po’ stranita. Molti sostenevano di non avere mai visto uno spettacolo di danza eppure si fermavano, al punto che si era creata una calca di 800 persone, volevamo addirittura chiudere i portoni. L’assenza di aspettative, la novità, la curiosità hanno creato in questo e in altri casi un’attenzione alta, al punto che ogni anno mi trovo a stupirmi di quanto in realtà sottovalutiamo la possibilità che progetti molto arditi possano arrivare a un grande pubblico.
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.