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Una guerra che non è stata ancora vinta. Intervista a Pavel Yurov

di Francesco Brusa

Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un’altra Europa e di un ciclo di interviste e reportage dedicati all’Ucraina, la cui introduzione è possibile leggere qui.
 

Originario di una piccola cittadina del Donbass, Pavel Yurov si è avvicinato al teatro durante l’università iniziando a recitare in alcuni centri artistici di Kiev. Col tempo la sua concezione scenica si è sviluppata in varie direzioni, fino a portarlo nel 2010 a lanciare l’imponente progetto “DramPortal” (15 fra reading e performance di drammaturgie contemporanee). Quattro anni più tardi, sull’onda delle proteste di Euromaidan, ha maturato un approccio maggiormente documentario e sociale che lo ha spinto a tornare nelle sue zone d’origine per capire meglio la natura del conflitto in corso. Qui, assieme all’artista Denis Grischuk, è stato sequestrato dai ribelli pro-russi per 70 giorni, subendo anche delle torture, fino alla riconquista da parte dell’esercito ucraino della città di Slovyansk, dov’era imprigionato. Nel solco di tali esperienze sono nati lavori che lo hanno portato anche all’estero, come il reading Donbas. Hollow Land presentato in una versione laboratoriale a Toronto (con Anastasiya Kasilova).
Con lui proviamo ad addentrarci nelle tensioni della scena indipendente ucraina e a capire come il teatro possa affrontare conflitti che – nonostante i cessate il fuoco ufficiali – sono ancora in là dal concludersi.

Partiamo da una domanda di carattere generale sulla scena ucraina. Ti sembra che il Maidan e i fatti di Crimea e Donbass abbiano generato il desiderio o la necessità di un approccio maggiormente politico al teatro? Parlo sia dal punto di vista degli artisti che del pubblico…

È difficile valutare la situazione in maniera univoca. Esiste certamente una tendenza da parte dei giovani artisti della scena alternativa a trattare tematiche legate all’attualità del conflitto, della corruzione, dei rifugiati o simili. Va anche detto che tale tendenza è supportata principalmente da fondi e da istituti di cultura stranieri, in quanto il Ministero della Cultura ucraina non ha in sostanza alcuna politica chiara in materia (fatta eccezione per la richiesta avvenuta qualche anno fa da parte del nostro Ministro per un’arte che fosse completamente patriottica e propagandistica). Pure nei cartelloni dei grandi teatri statali è infatti possibile incontrare alcune performance a sfondo sociale o politico (il più delle volte, appunto, con il patrocinio di enti come British Council, Goethe Institute, Polish Institute e via dicendo…) ma in generale questo nuovo “filone” o tendenza non gode ancora di alta considerazione e sta incontrando numerosi ostacoli e resistenze e deve dunque lottare in continuazione per affermarsi. Credo che ciò abbia a che fare anche con la mentalità predominante nel nostro sistema teatrale, che è di stampo post-sovietico. Prima dell’indipendenza il teatro è stato quasi esclusivamente o arte di propaganda o il suo opposto, arte dissidente. Non esiste dunque una tradizione di libera rappresentazione di differenti idee o differenti opinioni ed ecco che oggi il teatro spesso diventa un mezzo per evadere dalla quotidianità e dai problemi, per passare del tempo in un ambiente diverso da quello ordinario.
C’è poi un altro elemento: molte delle pratiche e delle tecniche sceniche contemporanee sono acquisizioni relativamente recenti da parte dei giovani artisti ucraini (che ne sono venuti in contatto 5-10 anni fa). Si tratta quindi di un periodo comunque breve affinché possano essere sviluppate e adattate al contesto locale.

Pensi dunque che ci sia il rischio che i giovani artisti adottino stili e concezioni sceniche dall’ovest europeo in maniera acritica e poco fruttuosa?

A mio parere, spesso si tende proprio a “copiare” l’approccio europeo che si rivela poco adatto alla situazione e alla società ucraine. A volte nel raccontare tematiche come quelle del conflitto le si mette in scena in modo eccessivamente drammatico, andando però a toccare solo la superficie del problema. Oppure anche a livello di temi penso si stia creando una sorta di “monopolio” dell’approccio critico, per cui tante performance si occupano di questioni di genere, diritti animali o omofobia in maniera un po’ automatica, senza che vi sia una reale urgenza. Esiste insomma un certo atteggiamento totalitario da parte di chi sta cercando di produrre dell’arte critica, che rischia di perdere di vista le differenze di situazione e contesto.
È difficile trovare un modo realmente efficace per parlare a teatro di eventi che sono ancora in corso. Penso che la scarsa propensione del pubblico a voler approfondire tali argomenti attraverso degli spettacoli sia legata anche al fatto che spesso manca da parte degli artisti l’elaborazione di un metodo per approfondire adeguatamente le questioni del conflitto. Occorre capire che le persone sono costantemente a contatto con quest’ultimo, sia attraverso i notiziari che a livello personale. Il teatro deve provare a fare i conti con tale situazione, forse provando a trasmettere una maggiore speranza e un maggior conforto invece che arrecare ancora più pena e dolore di quelli che già si provano o, almeno, cercando un approccio più “bilanciato”. Dopo due anni, la gente inizia a essere stanca: lo spettacolo di maggior successo al momento è quello di Квартал 95 (Kvartal 95), una commedia stand-up che, se anche a volte tratta alcune problematiche legate ai conflitti, lo fa in un modo totalmente superficiale e – aggiungerei – a tratti irrispettoso della dignità umana.

Qual è allora la reazione che vorresti provocare nello spettatore attraverso i tuoi spettacoli?

In qualche modo, lo scopo della mia arte è quello di rassicurare chi è afflitto e affliggere chi è rassicurato, di “disequilibrare” chi si sente saldo nelle proprie posizioni e riequilibrare chi si sente incerto. Sono stato recentemente a una messa in scena da parte del libro “Depeche Mode” dello scrittore ucraino Serhij Zhadan (spettacolo diretto dal regista Marcus Bartl e prodotto a Kharkiv). È un’opera di dieci anni fa eppure ancora rilevante per il nostro contesto, scritta in modo molto intelligente e arguto. Ho capito in quel caso che rivolgendosi in maniera semplice e onesta al pubblico, e farlo ovviamente “radicandosi” in un contesto comune con quest’ultimo, si riesce a toccare chiunque si trovi nella stanza senza bisogno di alcun “escamotage” volto a favorire l’intrattenimento. Ogni spettatore sapeva perfettamente ciò di cui si stava parlando e poteva facilmente associare le proprie sensazioni e i propri pensieri alle parole dello spettacolo.
Per me, allora, il teatro ha sostanzialmente a che fare con la comunicazione. Si tratta di coinvolgere il pubblico in determinate questioni, condividendo con lui la tua posizione a riguardo. Con la speranza, chiaramente, che tale processo possa avere delle ricadute sociali, che faccia riflettere gli spettatori e gli faccia rivalutare le proprie opinioni o semplicemente capire che non sono soli nelle proprie convinzioni.

Hai parlato dell’eredità sovietica nel sistema teatrale. Esiste anche un’eredità a livello estetico, di stili o metodi scenici?

Nel teatro statale sussiste ancora un approccio di stampo “sovietico” al teatro, per cui tutto è basato su un testo che dev’essere quasi letteralmente “trasmesso” al pubblico. Praticamente in ogni accademia il metodo recitativo che viene insegnato è quello di Stanislavskij, con un forte accento dunque sull’espressione dei sentimenti e della vita interiore dei personaggi. Al contrario, non c’è generalmente un lavoro approfondito sulla corporeità e, come conseguenza, in Ucraina esistono veramente pochi collettivi di teatro plastico o di danza contemporanea.     
La scena alternativa si sta allontanando da questa impostazione. Io personalmente cerco di fare in modo che gli attori non “recitino” ma che si inseriscano nella maniera più naturale e organica possibile nel flusso della performance, che sta già andando in una certa direzione. Tuttavia, è chiaro che il metodo varia da spettacolo a spettacolo. Attualmente sto lavorando a un progetto di teatro-documentario (la cui traduzione in inglese sarebbe approssimativamente “Imitation Deadline”) e sul palco vengono portate anche le reali biografie degli attori. Inoltre, questi ultimi provengono anche da formazioni teatrali differenti, chi da un approccio “classico”, chi dal teatro di marionette o dalla danza. È molto difficile trovare un equilibrio fra le varie attitudini. A volte la consapevolezza parte più dall’espressione verbale, altre dal movimento fisico. Quello che sto cercando di fare al momento è allora cercare una sintesi fra questi due approcci.

Il teatro-documentario è molto popolare in Ucraina?

Nella scena indipendente, decisamente. Si tratta probabilmente di una delle pratiche più diffuse assieme alla nuova drammaturgia contemporanea, da 7-8 anni a questa parte. Credo che il teatro-documentario risponda alla necessità di parlare delle cose direttamente, senza doversi nascondere dietro a un Machbet o un Checov. Si tratta di un’inversione di tendenza completa rispetto alla nostra storia, per cui siamo invece abituati a dare indizi in continuazione, a esprimere sul palco quello che pensiamo veramente solo in maniera obliqua. Certo, l’accenno e l’insinuazione restano sempre degli importanti strumenti artistici che possono aprire spazi per innovazioni sceniche. Ma la domanda che ora ci stiamo ponendo è: come riflettere su una guerra che ancora non è stata vinta? Un approccio di stampo documentario al teatro ti permette di reagire più velocemente e, soprattutto, di affrontare questioni ancora irrisolte.
Personalmente, è stato durante la mia partecipazione al movimento di Euromaidan che ho capito di volermi concentrare sul dramma documentario. Ne avevo già sentito parlare, chiaramente, ma non ne avevo mai compreso la natura o l’urgenza. Al contrario, stando in piazza con le altre persone fino alle giornate in cui sono avvenuti i fatti più tragici, ho realizzato come la società civile fosse qualcosa su cui occorresse porre attenzione. Prima di quegli eventi ero rimasto in qualche modo “incapsulato” nel mio mondo artistico, occupandomi di letteratura, drammaturgia e via discorrendo. Il Maidan è stato qualcosa di bellissimo e orribile allo stesso tempo, in cui ho sentito di trovarmi accanto al pubblico che vorrei avere anche a teatro: una comunità di persone disposte a mettere in condivisione le proprie opinioni e ad ascoltare pensieri e sentimenti degli altri. Dopo essere stato assorbito dalle proteste, ho dunque realizzato che attraverso il teatro dovevo parlare di queste persone e di questa situazione. Già nell’aprile del 2014 assieme a un collega ho costruito uno spettacolo assemblando stralci di articoli giornalistici, commenti di gente comune ricavati da Facebook, brevi dialoghi e monologhi.

Quale pensi sia il lascito dell’esperienza di Euromaidan nella società ucraina?

L’esplosione di Euromaidan è stato qualcosa di veramente inaspettato. Proprio qualche mese prima parlavo con una curatrice polacca, dicendo che dopo la Rivoluzione Arancione del 2004 la popolazione era completamente frustrata e che nulla sarebbe più accaduto in quel senso.
Credo che la conseguenza più vistosa del Maidan nel tessuto sociale sia stata la crescita del movimento volontario e la nascita di una vasta rete di organizzazioni non governative. Inoltre, c’è stato anche un aumento di figure giovani e alternative che sono attualmente coinvolte nei processi politici del paese. Non si tratta chiaramente ancora della massa critica necessaria affinché si produca un cambiamento su larga scala. In più, il susseguirsi degli avvenimenti in Crimea e Donbass è stato rapido e ha prodotto uno smembramento praticamente immediato di tali attività in quelle zone mentre molte persone sono scappate, emigrando in Europa.    
Tuttavia anche da fuori in tanti cercano di contribuire agli sviluppi sociali e politici del paese. Io stesso quest’estate ho contribuito come volontario a far arrivare rifornimenti di attrezzatura medica in Ucraina dalla Francia. In qualche modo, lo spirito e l’energia del Maidan sono ancora presenti.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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