Non è vero, non è andata esattamente così. Ma, durante uno dei nostri incontri settimanali, ci siamo chiesti, oltre a cosa scrivere di questo lavoro, in che modo fissare le nostre impressioni sulla carta. Abbiamo voluto giocare con alcune lettere dell’alfabeto e ricorrere ad alcune parole, nate dall’interesse per alcuni oggetti presenti sulla scena o per alcune azioni dell’interprete. Ciò che ne è venuto fuori è una sorta di glossario, un breviario costituito da precetti o da brevissime parabole destinate a un ipotetico spettatore che potrà memorizzare o dimenticare. Trattasi di un vocabolario parziale e con molte lacune che tenta di mettere ordine o scompaginare ancora di più le nostre menti e quelle di coloro i quali sono interessati a leggere di questo lavoro.
Fare ricorso a un labirinto di lemmi per raccontare un lavoro già di per sé simile a una matassa, a un groviglio, a un complesso di edifici strutturati a più livelli e caratterizzati da stili architettonici difformi l’uno con l’altro forse non è stata una scelta saggia da parte nostra. Nella sala teatrale della Soffitta, difatti, martedì 29 gennaio ci siamo affacciati a uno spettacolo, frutto di un lavoro durato ben quattro anni e condotto a quattro, otto, dieci mani. Oltre alla presenza dell’attore e danzatore Lorenzo Gleijeses, protagonista sulla scena e co-regista dell’opera, e del musicista Mirto Baliani, designer delle luci e della partitura sonora e musicale, lo spettacolo vanta la partecipazione di svariate personalità artistiche che hanno collaborato in diverse fasi creative alla realizzazione della sua complessa architettura – come scopriamo durante l’incontro con Gleijeses e Baliani moderato dal professor Marco De Marinis alla fine dello spettacolo. Dai materiali coreografici nati a seguito del lavoro svolto da Gleijeses con Michele Di Stefano, passando alla scrittura della drammaturgia per la quale è stata coinvolta Chiara Lagani di Fanny e Alexander e giungendo alla regia che comprende i nomi di Eugenio Barba e Julia Varley dell’Odin Teatret e di Luigi De Angelis di Fanny e Alexander, l’immagine che ne deriva è quella di progetto, o forse un’impresa artistica complessa, dal sapore contemporaneo e quasi titanico. All’intreccio di queste personalità, diverse tra loro nell’approccio al lavoro teatrale per età, interessi e linguaggi e che in maniera frammentaria attraversano in lungo e in largo questo spettacolo, si aggiungono anche brani di Franz Kafka tratti dalle Metamorfosi e da Lettera al padre.
Al tumulto della creazione artistica abbiamo quindi voluto rispondere con un tumulto di voci, definizioni ed espressioni. Il filo d’Arianna segna lo spazio scenico e anche questo nostro raccoglitore. Damiano Pellegrino
A
« azione »
A teatro ogni movimento può diventare azione e ogni azione può raccontare una storia. Per esempio un uomo dal buio del palco tenta di entrare in un quadrato di luce. Lorenzo alza un braccio per riscaldare i muscoli durante le prove e viene interrotto da tre voci-off: il regista, il padre e la moglie. Un uomo si risveglia e scopre di avere una zampa al posto del braccio. Un altro, con lo stesso movimento del braccio, afferra una penna con cui scrivere una Lettera al padre, che mai verrà recapitata al genitore. Attore e regista, moglie e marito, padre e figlio, essere umano e insetto vengono tutti portati in scena da un solo attore attraverso una partitura fisica ripetuta nel corso della narrazione. Lo spettatore traduce ogni azione in una storia e come un pittore, collabora con l’attore alla creazione del dipinto. Roberta Cuomo
F
« finestre »
I quadrati di luce, forse il riflesso delle finestre che si affacciano verso uno spazio extra diegetico, creano le uniche sorgenti di luce all’interno dell’oscurità della sala. Appaiono e scompaiono velocemente fungendo da montaggi nella partitura del danzatore Lorenzo Gleijeses. All’inizio vediamo le sue mani colpite dalla luce, per poi concentrarsi sui piedi presi di un movimento continuo e trascinante. Questi spazi illuminati sono come dei campi magnetici per il performer, egli li divora, cercando di conoscerli attraverso la sua danza. In un attimo sentiamo il rumore dell’acqua che scorre da una delle “finestre” e la mano del danzatore che si rapporta alla materia che non vediamo ma percepiamo. La luce scompare per apparire in un altro posto e lui si getta in terra, preso dall’irresistibile richiamo di provare ancora una volta ma il suo movimento non riesce ad afferrare la sfuggente luce, la finestra si chiude ed egli rimane nell’oscurità. Jovana Malinaric
G
« gabbia »
La gabbia che sia mentale, fisica o lavorativa costringe il protagonista a una vita di delirante quotidianità, dove ogni sequenza si ritrova imprigionata in un loop senza fine; dove le poche interazioni scambiate sempre attraverso un apparato telefonico si ritrovano svuotate di ogni conseguenza pratica. Ogni esortazione a una vita più equilibrata e sana viene annientata dall’insoddisfazione cronica tipica della sindrome di un artista. E lo scarafaggio si ritrova impossibilitato a smettere di ossessionarsi, a rompere la catena di isolamento in cui si è imprigionato, cercando una via d’uscita dall’unica vera condanna cui si ritrova pur non volendo : quella di figlio d’arte. Luci stroboscopiche alternate a fari che illuminano un’unica porzione di palco, ubriacano lo spettatore che si ritrova soffocato da questa gabbia esistenziale. Margherita Piccoli
I
« indagine »
« Il corpo steso a terra di un trentenne che ha già smesso di respirare. Trattasi di omicidio? Delitto passionale? Gli agenti, accorsi sul posto, hanno compiuto tutte le rilevazioni del caso ma nessuna prova è stata ancora rinvenuta. Alla ricerca del corpo del reato è stata sostituita da parte degli inquirenti una traccia d’inchiostro blu tratteggiata lungo le braccia, gli arti inferiori e gli effetti personali appartenenti al corpo esanime steso a terra. Tantissimi curiosi, confluiti sul posto, hanno assistito allo spegnersi graduale, intermittente, irregolare del malcapitato. Ancora non sono chiare le generalità dell’uomo. In pochi lo conoscevano sotto lo pseudonimo di K, altri in vita lo chiamavano Gregorio, ma per gli amici, la fidanzata e i familiari lui era Lorenzo. L’omicida non ha agito con rigore, scientificità, esattezza e repentinamente, ma si è accanito a lungo sul corpo, dilaniato e ridotto in mille pezzi. La scena del crimine, rivelano alcune fonti indiscrete, era simile a un enorme ring dopo un incontro cruento di pugilato: sfere metalliche penzolanti e appese a delle corde ai quattro angoli, libri sparsi al centro della stanza, neon accecanti e intermittenti e un televisore sfasciato ai quattro lati. Le indagini, tuttavia, non escludono la pista del suicidio. Ma adesso ascoltiamo le parole di una delle vicine, raccolte dalla nostra inviata accorsa sul posto: «Era un bravissimo ragazzo. Altro non so dirle. Negli ultimi giorni rientrava tardi dalle prove. Eh si! Lavorava nel mondo dello spettacolo. Altro non so dirle. Sono affari che non mi riguardano. Però qualche giorno fa ho notato qualcosa di strano sbirciando dalla finestra. Ho visto Gregorio ripetere una serie di movimenti sempre uguali e trascinarsi sul pavimento a lungo. L’ho sentito parlare animatamente al telefono, prima con la fidanzata e poi con il padre. E poi una musica assordante in diffusione per ore e ore. Altro non so dirle. Aveva il corpo sfatto, sconquassato. Altro non so dirle».
E adesso passiamo allo sport. Ultimi aggiornamenti dal campionato di baseball. La squadra…». Damiano Pellegrino
M
« movimento »
«Uno non dovrebbe mai fermarsi a letto senza motivo» riflettè Gregor. Uno non dovrebbe mai fermarsi, punto. Lorenzo Gleijeses, nei panni del danzatore Gregorio Samsa, non si ferma mai: prova la coreografia, incessantemente e ossessivamente, durante le prove in teatro e nel suo appartamento. Una partitura di movimenti sempre uguali ma che, nel loro minimo variare, tradiscono di volta in volta il sentimento di inadeguatezza, rabbia e disperazione che abita nel corpo e tra le quattro mura della casa in cui Gregorio sembra essersi rifugiato come un recluso volontario. Movimenti ossessivi per dimostrare a sé stesso, al padre, al maestro di essere abbastanza. Il bisogno di Gregorio di urlare la propria umanità attraverso la danza viene così paradossalmente soffocato dalla morbosa ripetizione della coreografia stessa, che laddove interrotta lascia emergere sfoghi istintivi e animaleschi. E così, in questo mondo al contrario, i movimenti fluidi e meccanici del robot aspirapolvere ci appaiono più umani dell’umano. Valeria Venturelli
R
« robot »
Una macchina dall’aria misteriosa, di piccole dimensioni e con forma circolare, vaga con un moto apparentemente casuale su di una zona circoscritta del palcoscenico. Mi faccio trascinare dal suo lento e monotono movimento: avanti e indietro, indietro e avanti, procede con indifferenza e senza apparenti motivi. Tutt’attorno invece – noto di quando in quando – è confusione, frenesia, rumore. Un folle si agita in continuazione, come preso da qualche strano parossismo, ripetendo meccanicamente banalissime azioni quotidiane; percepisco talvolta in modo caotico nomi come «padre», «fidanzata», «psicologa». C’è un clima di nervosismo e di squilibrio nell’ambiente. Eppure, quella macchina è sempre lì, imperturbabile, incurante, e continua il suo errare infinito. Mi dicono poi che quell’invasato era una reinterpretazione del Gregorio Samsa della Metamorfosi di Kafka; e quell’oggetto tondeggiante un comunissimo robot-aspirapolvere. Damiano Perini
R
« rettangolo »
Rettangolo: di luce, di legno, di carta. Quattro angoli in cui definirsi. Gregorio Samsa ripete la sua coreografia ossessivamente nei limiti disegnati sul suolo da un fascio di luce. Inserisce il suo corpo nelle misure corrette, addirittura ne traccia il contorno con un pennarello. Gregorio Samsa ripete la sua coreografia ossessivamente nei limiti disegnati dalla casa con le sue pareti. Inserisce il suo corpo danzante tra gli oggetti e le incombenze quotidiane, mentre si toglie le scarpe o si lava i denti. Gregorio Samsa ripete la sua coreografia ossessivamente nei limiti disegnati dalle pagine di un quaderno. Inserisce il suo corpo nelle parole di Kafka, che fa danzare cercando la perfezione. Emma Pavan
S
« strada »
Il danzatore Samsa chiama agitato, confuso, il suo maestro: « Come la mettiamo con la strada di fuoco che porta al buio, maestro?». Più volte durante lo spettacolo si staglia sullo sfondo una palla di fuoco e sempre questa è destinata a sparire. Samsa corre cercando di inseguirla. Sul ring dai confini instabili pronti a divenire armi contro il lottatore, non assistiamo a uno scontro, bensì a un inseguimento: Samsa non affronta nessuno, se non se stesso e la sua piccolezza in quanto essere umano. Destinato a rimanere immerso nel buio di fronte alle sue domande, non può far altro che continuare a correre. Virginia Cimmino
S
« sincronia »
In gioco ritmico con la musica, i movimenti del danzatore si allineano a quelli dei suoni che, tra melodie pop, ricerca elettronica e ritmi quotidiani (un microonde in funzione, un campanello premuto, uno sportello che si chiude) creano un universo reale a cui facilmente relazionarsi. Attraverso movimenti scattanti e ripetuti, viene creato un sottofondo ritmico sorprendentemente famigliare che, sedimentandosi nello sguardo spettatoriale, rimanda a elementi acustici che creiamo, e di conseguenza ascoltiamo, nel nostro vivere quotidiano. La sincronia, verso la fine dello spettacolo, fa posto a suoni scollegati dai movimenti del danzatore-attore: nel momento in cui la crisi personale di Gregorio Samsa esplode, la musica enfatizza questo aspetto, trasformandosi da elemento ritmico integrato al movimento a suono distruttivo libero, echeggiando non più l’ordine fisico ma il disordine mentale del protagonista. Francesca Lombardi
T
« televisione »
Un grosso televisore a cristalli liquidi viene posto al centro della scena. È sottile, rettangolare, nero e con le “spalle” rivolte al pubblico: suo unico spettatore è Gregorio Samsa. Questi ha appena declinato l’invito della fidanzata a incontrarsi per un imperdibile – così le ripete lui al telefono – appuntamento televisivo. Eppure Gregorio non sembra interessato a guardare la tv. In un primo momento, seguendo i gesti modulari della sua coreografia, le si avvicina, la tocca, la annusa, si ritrae – quasi a volerla sondare. Poi trasforma i gesti in una danza primitiva e scimmiesca che si espande attorno al totem televisivo: è un vero e proprio “corpo a corpo” tra l’attore e la tecnologia. L’exploit di questa magica danza, sostenuta da un escalation di musica e luci, si condensa in un gesto finale che si potrebbe dire di kubrikiana memoria: l’oggetto, trascinato da Gregorio dietro un schermo bianco, viene distrutto in sillhouette. Uno scontro fisico e simbolico che non sembra sancire alcuna vittoria. Gregorio infatti torna in scena perpetuando la sua lotta con lo spazio vuoto. «Ascoltare, fagocitare, assorbire, decostruire, pensare, sognare tutto il possibile» sembra volerci urlare Samsa: adesso che non sembrano esserci più ostacoli alla ricerca del gesto, del movimento, del proprio “io”, il corpo dell’attore è come dilatato in tutti i suoi estremi, non c’è un centro e nemmeno una fine. Da seduti assistiamo a un materia umana che si è fatta puro ritmo, che si espande e si annienta, inesorabilmente. Viene da chiedersi cosa rimarrà di questo ipercorpo, teso in questa realtà espansa che è la sua mente? I nostri occhi guardano e danzano silenziosi insieme a essa. Vittoria Majorana
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.