L’Open Program nasce nel 2007 e si evolve sotto la guida del direttore associato del Workcenter, Mario Biagini. È composto da 10 attori provenienti da tutto il mondo, il loro lavoro è una porta verso il mondo esterno: la pratica artistica quotidiana e gli aspetti interni della ricerca del Workcenter, sono connessi alla società esterna più grande. Ha lo scopo di riscoprire il nucleo stesso del teatro, il momento del contatto significativo tra gli esseri umani. Fino al 2015 l’Open Program ha lavorato con la poesia di Allen Ginsberg, per riscoprire l’aspetto vivente della parola poetica come strumento di contatto e azione. Altro materiale artistico è stato creato dal lavoro sulle canzoni della tradizione del Sud degli Stati Uniti, esplorando i modi in cui queste canzoni possono innescare processi performativi grazie alle loro potenzialità come catalizzatori per il contatto e l’interazione. Questi due lavori hanno dato vita a: I Am America, Electric Party Songs, Not History’s Bones – A Poetry Concert e The Nightwatch. Recentemente gli incontri e gli eventi performativi proposti dall’Open Program nascono dal lavoro sulle canzoni della tradizione afroamericana del Sud degli Stati Uniti e della tradizione afro-ispanica del Sud America. Come Dark is My Mother, lavoro delle donne del team che, attingendo da diverse fonti tradizionali, riflette la diversità culturale ed etnica del gruppo. Oppure The Hidden Sayings, biglietto da visita dell’Open Program: «Un piccolo gruppo di persone s’incontra per interrogarsi sui propri miti, di fronte alla città. Pronunciano parole antiche, tratte da testi della prima cristianità, e le intrecciano con canti della tradizione afro-americana. Affrontano testi e canti. Si domandano quali possono essere per loro oggi il senso, l’urgenza, l’azione di questi canti e di questi testi che sono entrambi alle radici mitiche del mondo in cui vivono. Non arrivano a nessuna risposta che chiuda inevitabilmente la domanda. Ma la domanda è concreta, non eludibile, si manifesta attraverso elementi semplici e tangibili: azione, contatto, parola viva, canto, danza – e vibra muta e palpabile come l’eco silenzioso di una campana: i canti della tradizione afro-americana la portano e l’amplificano delicatamente, suggerendo vie di trasformazione e contatto, e le parole della cristianità delle origini (qui tradotte principalmente dal copto e provenienti dalla regione comprendente l’Egitto, il Medio Oriente e la Grecia), voci familiari e dimenticate, ci rimandano l’eco di questa domanda muta». (The Open Program).
Attorno all’Open Program e all’Invito al canto da qualche anno in Italia si è creata una comunità. Come il Coro stabile di cittadini di Pontedera e il giovane Collettivo Hospites diretto da Eduardo Landim, membro dell’Open Program. Il gruppo di ragazzi che ne fa parte si incontra per la prima volta in un workshop condotto dall’Open Program e Mario Biagini presso la Soffitta dell’Università di Bologna. Da più di un anno ha iniziato a lavorare creativamente con il regista Eduardo Landim. Il team è composto dalla varietà di elementi che contraddistingue gli studenti fuori sede. Dal Friuli Venezia Giulia alla Sicilia, sono molti i dialetti coinvolti in questo progetto e che ne caratterizzano l’opera. Il Collettivo ne fa un punto di forza e un elemento fondamentale con il quale promuovere l’interculturalità tra le diverse realtà regionali e locali che caratterizzano l’Italia.
Ai seminari sembra ci siano sempre nuovi partecipanti a cui insegnare i canti e le regole del gioco, mentre si scopre ed emerge qualcosa di nuovo a partire dalle semplici domande che stanno alla base della complessità umana. «Il canto “funziona” quando le sillabe, le vocali, le consonanti assieme alla linea melodica diventano una corrente di scintille che accendono i centri di energia all’interno della persona che agisce. È un fenomeno che si realizza al di là del significato delle parole del canto; è basato sul suono, sulla risonanza e sulla ripetizione. (…) Anche la mente è coinvolta nel processo, ma il suo coinvolgimento va oltre l’impegno a esprimere un pensiero logico e conosciuto». (T. Richards, Frammenti da «In the territory of something third» in Opere e sentieri I, Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, a cura di A. Attisani e M. Biagini). Quando si canta emerge qualcosa di misterioso nella persona che lo fa, ciò accade attraverso delle azioni molto concrete. In ogni incontro cantato c’è un leader che guida un canto, costui viene seguito da un coro che reagisce a ogni sua intenzione e azione. In genere dopo un po’ di tempo l’attenzione delle persone tende a calare naturalmente. Ma quando si riesce a tenere la tensione e si conoscono così bene le regole tanto da dimenticarle in modo logico, accade qualcosa di interessante. È così che emerge una sorta di drammaturgia spontanea in cui ci sono come in ogni spettacolo i personaggi principali, i secondari, le comparse, ecc.
Nel lavoro dell’attore e negli incontri cantati è importante trattenere e non farsi prendere da troppo entusiasmo o dall’euforia danzata del momento, siccome questo allontana dalla tensione che richiede un canto. Imparare ad ascoltare la propria voce per coesistere insieme a quella degli altri e saperla modulare influisce molto sulla qualità del lavoro. Il canto necessita di essere delicato, leggero, curato come un bambino piccolo. Ma l’improvvisazione e l’organicità che emerge da questa ha bisogno di regole, quando si smette di preoccuparsi per occuparsi di ciò che si fa, può venir fuori qualcosa di prezioso, ogni minimo dettaglio o impulso affiora. Biagini spiega con efficacia concetti e azioni di cui Stanislavskij parlava, come le quattro bolle. La prima è la più vicina, è quella più intima. Una volta raggiunta questa parte però bisogna sviluppare la seconda, quella che dà la possibilità di avere un contatto con l’altro. La terza può dare immediatamente la consapevolezza dello spazio, la disposizione e lo stato delle altre persone. Un bravo attore si riconosce subito quando agisce nello spazio. La quarta è immaginare la stanza in cui si è senza le pareti, come se attorno ci fosse uno spazio vuoto con, forse, delle persone, degli spettatori. Dopodiché chiede alle persone di porre attenzione ai partecipanti che sono dall’altra parte della stanza. Subito tutti sembrano dimenticare ciò di cui si era appena parlato e forse è proprio questo ciò che c’è di interessante nell’essere umano. Si ricomincia a giocare e qualcosa sembra cambiare nelle persone, il modo in cui si pongono nello spazio e il contatto che stabiliscono con l’altro. Infatti il lavoro sullo spazio è un elemento imprescindibile all’interno di un Incontro cantato. La disposizione delle persone viene mossa dal leader del canto, vitale è avere a disposizione la visuale di tutti, anche di coloro che sono all’esterno. In un antico dipinto appare il disegno di composizioni nello spazio, come se si fosse su una scacchiera. Quando ci sono due persone vicine piuttosto che altre intanto che fanno qualcosa di molto specifico, tutto cambia all’interno della “drammaturgia spontanea”. Esploriamo le possibilità di una creazione artistica fluida, partecipativa, con semplici elementi strutturali e di comportamento, una forma d’arte forse dimenticata, in cui ogni partecipante rinuncia al suo anonimato e diventa co-autore responsabile e consapevole della qualità dell’incontro. Dunque una forma d’arte specifica, con le sue regole ancora da scoprire, aperta alla partecipazione dei presenti, ma non di meno una forma, un fatto d’arte organizzato ed efficace» (Mario Biagini e Open Program).
L’Open Program oltre a lavorare ai propri spettacoli, negli ultimi anni è impegnata sempre più costantemente in tutto il mondo verso un’apertura con le realtà circostanti. Si pone la questione di evocare l’attualità, chiedendosi cosa è necessario, la questione del mondo in noi e di noi nel mondo.
Martina Saulle
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.