Al secondo piano di un piccolo condominio in via San Felice a Bologna c’è un’abitazione che si chiama Casavuota. Lì Alessandro Berti, che vi alloggia, tiene laboratori e mette in scena i propri spettacoli. Il 19 marzo abbiamo scoperto questo nuovo spazio andando a vedere la sua pièce Fermarsi: appunti sulla vita di un samaritano, dedicata alla figura di Don Paolo Serra Zanetti. Vi proponiamo un’intervista all’attore-regista. Le foto di scena dello spettacolo Fermarsi sono di Daniela Neri Non capita tutti i giorni di assistere a uno spettacolo che si svolge in una casa. Che cos’è e come nasce Casavuota? Casavuota è la sfida di una casa-atelier. È casa mia ma non è casa mia, perché due volte a settimana è invasa da persone che fanno un laboratorio su Shakespeare e almeno una settimana al mese da una trentina di spettatori a sera che vengono a vedere qualcosa. Da qui al prossimo anno approfondiremo, svilupperemo il progetto. L’idea è quella di un luogo di incontro e in questo senso l’elemento conviviale è funzionale, anche se il fatto di fare un teatro col rinfresco di per sè non mi interessa. Mi interessa di più che un collega venga a vedere qualche mia prova o, come sta già succedendo, che venga lui stesso a mostrare pezzi del suo lavoro, a confrontarsi. La sfida è un po’ questa. L’ho chiamata Casavuota perché la stanza che ho adibito a teatro era la living room della famiglia che ci abitava, ma io l’ho svuotata, ho messo dei pannelli fonoassorbenti ed è diventata una sala in cui si fa teatro. All’interno del tuo percorso artistico si possono distinguere due periodi che si differenziano anche per la concezione delle forme teatrali e dello spazio… I primi dieci anni di lavoro sono stati dedicati a un teatro-danza politico con una compagnia che avevo fondato (si chiamava L’Impasto e poi in parte è diventata l’attuale Balletto Civile). Lì avevamo, delle volte, anche venti persone in scena che dirigevo e per le quali scrivevo i testi. Nei secondi dieci anni invece ho trovato nel soliloquio, nel monologo, nell’assolo, un canale molto bello di nuova relazione col pubblico. Sono arrivato allo spazio piccolo perché a un certo punto, anche per questioni di ridimensionamento del mercato, ho cominciato a fare esperienza di una maggiore intimità, di un rapporto più ravvicinato col pubblico e la cosa mi è piaciuta. Nei primi anni facevo un teatro-danza occidentale vicino al Tanztheater di Pina Bausch, finché non mi è capitato di studiare con maestri di danza Butoh. In particolare una maestra giapponese, Yoko Muronoi, che mi ha fatto intuire, in pochi giorni di lavoro assieme, come unire il mio rinnovato modo di concepire il teatro come atto più intimo, testimoniale e meno pop, con una forma possibile del corpo. Il tuo è un teatro che attinge da elementi religiosi, lo si nota dai titoli degli spettacoli, ma anche dai temi di molti dei laboratori che tieni. Qual è per te il rapporto fra la spiritualità e il teatro? È un rapporto cambiato nel tempo. È iniziato dopo i miei anni romani, quando alcune vicende mi hanno portato a scoprire la mistica: questa letteratura minoritaria di tutte le religioni, osteggiatissima dal potere devozionale religioso centrale. Storicamente c’è un rapporto difficile, conflittuale fra spiritualità e devozione, la spiritualità ha una libertà che travalica le mediazioni, le gerarchie, quindi è scomoda. Mi ha molto affascinato questa letteratura che, oltre ad avere valenze esistenziali, filosofiche e spirituali, si è rivelata anche un grande teatro, un serbatoio di testi degno dei grandi monologhi di Shakespeare. Negli ultimi anni frequento meno queste fonti spirituali e mi è capitato – probabilmente non è un caso – di lavorare su figure (come quella di Serra Zanetti o di Fornasini nella storia della strage di Montesole) più contemporanee, più storiche. Figure di persone che hanno avuto sì un’esperienza spirituale o mistica, ma allo stesso tempo estremamente impegnate nella società. Questa direzione mi sta intrigando perché è in relazione con la mia natura profonda, quella di un collegamento fra l’impegno sociale e la contemplazione. Direi allora che la mia immersione nella mistica non ha portato a un distacco dalla realtà. Al contrario mi è servita a trovare una chiave più operativa, più chiara, di impegno nella storia. Nella pièce Fermarsi la dimensione narrativa si mescola a un significativo lavoro sul corpo. Qual è il percorso attraverso cui questi elementi si sono mescolati? Nello spettacolo ci sono tre forti “zone” stilistiche: una zona narrativa – che in genere non frequento – formata dagli articoli del Resto del Carlino del 30 aprile ’96 e che recito senza cambiare una virgola. In questa parte mi accompagno con la chitarra. Poi c’è una zona interpretativa verbale centrale in cui, come attore, interpreto il protagonista e recito una sua omelia. Infine c’è una terza parte breve ma molto importante, fisica, in cui un po’ mimeticamente ma anche con una certa libertà provo ad affrontare il personaggio di Don Serra Zanetti, che aveva una fisicità memorabile per chi l’ha conosciuto. Fanno parte dello spettacolo anche due canzoni che rientrano all’interno della zona narrativa, molto liriche ed emotivamente coinvolgenti anche per me. Queste tre diverse aree corrispondono a contenuti diversi. La parte in cui viene ripreso l‘articolo del Resto del Carlino del 30 aprile – 1 maggio 1996, attraverso le parole dei bottegai bolognesi di via Castiglione, ma anche delle autorità competenti, racconta la rivolta dei negozianti contro la presenza di un gruppo di “clochard ubriachi” accusato di disturbare il sereno svolgersi delle attività. Letta vent’anni dopo è di una crudeltà, di un conformismo, di un qualunquismo allucinanti e il filtro narrativo e musicale mi è servito anche per prendere un po’ le distanze dalla volgarità di questo materiale. Le due canzoni a cui ti riferisci sono The Ghost of Tom Joad di Bruce Springsteen e O Mary Don’t You Weep, della tradizione popolare americana, ma ripresa dallo stesso cantautore… Lo spettacolo mi è stato commissionato dall’Associazione Don Paolo Serra Zanetti, che si occupa di tenere viva la memoria di questo personaggio notevole e misconosciuto. È una storia che mi è stata presentata come bolognese. Io non amo le storie o i personaggi “tipici”, leggendo poi del modo in cui la città ha reagito a questa figura mi è sembrato di essere di fronte a una storia ben poco bolognese. Questa persona è stata, tra le altre cose, anche una spina nel fianco della borghesia bottegaia cittadina, quindi ho tolto completamente la “bolognesità” che era inesistente e ho collegato la storia ad alcuni elementi universali, come il lavoro straordinario di Ivan Illich (i cui testi sono proiettati nello spettacolo) sulla sociologia della religione e l’album sociale di Springsteen. La cosa bella è che entrambi i materiali sono del ’96, ovvero dell’anno della rivolta bottegaia di via Castiglione. Cosa ti ha colpito nella vicenda di Don Serra Zanetti? Inizialmente, quando mi hanno chiesto di fare uno spettacolo su Serra Zanetti, ho detto di no. Non sapevo come avrei potuto, col teatro, dare un apporto originale alla sua biografia… poi mi hanno raccontato della rivolta dei bottegai e sono subito andato all’Archiginnasio dove ho trovato gli articoli di cronaca che parlavano di queste proteste contro un prete-professore e i suoi amici barboni. Gli articoli, terribili nel loro genere, mi hanno folgorato. Erano modernissimi, succedeva quello che succede sempre: la rivolta della pancia della città contro il diverso. Adesso in Italia c’è una nuova legge che dà potere ai sindaci di “pulire” le vie da chi sta in strada. Proprio qua sotto casa fino a ieri dormiva un ragazzo che adesso è scomparso, non so se in virtù di questa legge o meno, ma è per dire che anche oggi la sensibilità della borghesia nazionale e locale, e dei politici che la rappresentano, non è molto cambiata. Serve una presa di coscienza forte. Prima di salutarci, qualche coordinata sui prossimi spettacoli a Bologna? In prossimità della festa della Liberazione, il 21 e il 22 Aprile a Casavuota ci sarà Un cristiano, che è il mio monologo sulla strage di Montesole osservata dalla prospettiva di don Giovanni Fornasini, medaglia d’oro al valore e figura emblematica di resistenza civile. Il 16 maggio, invece, alla basilica di San Domenico, sarà la volta di Leila della tempesta. Lo spettacolo è un dialogo fra una detenuta tunisina e un monaco islamologo italiano che lavora come volontario in carcere. Un confronto sul rapporto tra provenienze culturali di area islamica e costituzioni occidentali (in questo caso quella italiana che è una costituzione molto bella, in cui le questioni della laicità o non laicità, della libertà di culto e del rispetto civile sono affrontate in modo creativo, non dogmatico). È un testo scritto da Ignazio De Francesco e che io ho adattato al teatro insieme a Sara Cianfriglia, mia collega attrice che interpreta il ruolo di Leila.
a cura di Matteo Boriassi, Martina Vullo
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.