Buone morti, luoghi geografici, vignette e Cristi al femminile. Di questo e altro è il caso di parlare per riferirsi al lavoro di Roberto Scappin e Paola Vannoni. In vista della trilogia Tutto è bene quel che finisce: Tre Capitoli per una buona morte, a breve in scena all’Arena del Sole (dal 9 all’11 maggio con tre diversi spettacoli), Bologna Teatri ha intervistato Paola Vannoni per un affondo nel vissuto, nei pensieri e nel linguaggio dei Quotidiana.com Quali sono i percorsi personali, le necessità, le idee da cui si originano i Quotidiana.com? I Quotidiana.com nascono nel 2003 ma io e Roberto Scappin ci incontriamo qualche anno prima. Lui proveniva da un’esperienza professionale, da una scuola di teatro tradizionale a Torino che l’aveva abbastanza deluso. Si sentiva un po’ un “mercenario” della recitazione e avrebbe voluto anche scrivere il suo teatro. In quel periodo di fatto voleva smettere di fare l’attore. Io invece venivo dalla visione del festival di Santarcangelo dei Teatri: come volontaria seguivo i laboratori e gli spettacoli. Mi ero già orientata verso un teatro più “di ricerca”, forse oggi un po’ superato, ma che era comunque qualcosa di diverso rispetto al teatro di tradizione. Da un lato c’era quindi il mio entusiasmo verso il teatro, dall’altro la grossa delusione di Roberto che ho un po’ spronato, sollecitandolo a cambiare direzione per provare a costruire un nostro linguaggio. Da lì abbiamo iniziato a collaborare insieme, poi è nato anche un sodalizio sentimentale e le due cose si sono come fuse insieme. Eravamo diversi: sia nella provenienza che, probabilmente, negli obiettivi, per cui abbiamo faticato molto a trovare una nostra cifra. Direi che il lavoro più compiuto è Tragedia tutta esteriore della Trilogia dell’Inesistente. “Quotidiana.com”: come nasce questo nome? Quello era un periodo in cui non tutti avevano un sito internet, ma averne uno era un segno dell’essere strutturati, dell’essere più visibili e noi ironizzavamo un po’ su tale aspetto. “Quotidiana” è il senso del nostro sguardo. Il Teatro non fa parte della nostra quotidianità, dovrebbe entrare nella quotidianità di tutti noi, ma purtroppo così non è. E forse anche il teatro si dovrebbe avvicinare alla quotidianità, dovrebbe cioè parlare alle persone con un linguaggio che non rinunci a una ricerca, ma che riesca a trovare dei livelli di comunicazione più diretti. Il “.com” sta per il sito internet ma è anche l’abbreviazione di “compagnia”, ciò che siamo. Si parla spesso di Romagna Felix per sottolineare il fatto che quest’area geografica sia prolifica e vi trovino spazio varie e multiformi realtà teatrali. Qual è stato, se c’è stato, l’impatto del territorio sul vostro teatro? L’impatto c’è stato sicuramente. Io in particolar modo, e poi anche Roberto, ci siamo avvicinati e abbiamo conosciuto il teatro di Motus, delle Albe, di Fanny & Alexander, ma quello che ci ha segnati profondamente è stato il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio, non per una vicinanza di stile o di forma, perché la Socìetas possiede una potenza che deriva dall’immagine e da ciò che va oltre il linguaggio. Al contrario, noi facciamo abbondante uso del linguaggio, il nostro valore risiede più nella parola, nella scrittura. Tuttavia, la loro influenza è sicuramente stata significativa e molto forte, esercita su di noi un fascino che permane ancora oggi. A breve andranno in scena all’Arena del Sole i Tre capitoli per una buona morte: L’anarchico non è fotogenico (2014), Io muoio e tu mangi (2015) e Lei è Gesù (2016). Come è nata l’idea di questi spettacoli? Noi ci poniamo sempre il problema delle “questioni” a teatro, quindi di quali riflessioni condividere con lo spettatore. In questo caso la “questione” era l’eutanasia, un po’ perché a livello personale siamo stati toccati da un episodio di malattia terminale, la cui agonia ha lasciato in noi un segno molto potente, un po’ per la consapevolezza della nostra non libertà di decidere della nostra vita. Il tema dell’eutanasia si è poi ampliato. A me piace molto questionare, polemizzare. Crediamo che il teatro abbia un po’ questa funzione: mettere sempre in crisi dei dogmi, delle verità assolute che ci sono state trasmesse e che non abbiamo avuto modo di valutare, non abbiamo avuto modo di domandarci se ci appartengano veramente o meno. Quindi ci siamo anche divertiti a pensare a tutto ciò che dovrebbe morire, a ciò che sta agonizzando: la vita civile, la cultura, ciò che si sta portando avanti per gli interessi di qualcuno o per comodità di qualcun altro. Su tale riflessione si focalizza L’Anarchico non è fotogenico, il primo capitolo, dove attraverso le figure di due cowboy (simbolo di chi non teme la morte, di chi ogni giorno potrebbe concludere la sua vita in un duello o in uno scontro) affronta il tema di tutto ciò che dovrebbe morire, esaurirsi e rinnovarsi. Io muoio e tu mangi, più da vicino, porta invece il discorso dell’eutanasia più su un livello medico. Ci sono dei flash dell’agonia di un anziano in ospedale: i medici, i caposala, i primari. L’anziano com’è trattato? com’è curato? com’è tenuto in vita? Ci sono quadretti anche ironici, amaramente comici, perché cerchiamo sempre di portare temi pieni di sostanza alleggerendoli affinché lo spettatore riesca a empatizzare senza cadere troppo nel dramma Questo spettacolo ha prodotto in molti spettatori un’immedesimazione vicina alla commozione, qualcosa che noi non volevamo suscitare, ma sta di fatto che la realtà qui rappresentata fa parte purtroppo dell’esperienza di troppe persone. Lei è Gesù, infine, parte da una dichiarazione: «Deve finire il fatto che certi ruoli siano solo ed esclusivamente maschili, a cominciare da Gesù». Si ipotizza un Gesù donna e ci si immagina una sua visione diversa da quella del Cristo uomo. Cosa avrebbe fatto? Cosa avrebbe detto? Quali sarebbero stati i suoi dieci comandamenti? I tre spettacoli si sono evoluti nel corso delle rappresentazioni? Il lavoro è sicuramente cambiato, ma per come noi lo portiamo al pubblico, per come lo attraversiamo sulla scena. Ciò che vogliamo riflettere è la nostra incapacità di agire, la rassegnazione rispetto a ciò che ci pervade, la rassegnazione di non poter cambiare. È un aspetto che non vogliamo mettere in ridicolo, ma al contrario vorremmo metterlo in risalto affinché ci si possa rispecchiare in un’apatia che è tipica di questi anni. Qual è la cifra del vostro teatro? Pensiamo che la parola e il parlare siano a teatro un elemento fondante, occorre instaurare un’empatia con lo spettatore al di là di tutte le alchimie che si possono mettere in campo. Ci siamo concentrati molto su colui che parla e su come parla, su questa parola sussurrata, che non è urlata, che usa la tecnologia quasi per fare entrare lo spettatore in un pensiero ad alta voce più che in un dialogo a due, come se due persone si parlassero mentalmente senza pronunciare alcuna parola. Una sorta di intimità dove il teatro si raccoglie e non urla, però le cose che dice, magari, sono anche potenti. A proposito di questo pensiero ad alta voce di cui parli, a me il vostro teatro ha dato l’idea di un grande flusso di coscienza tendenzialmente aperto, che viene formalizzato nel corso tempo, sia per questa modalità del parlato, sussurrata e frammentata, sia per “l’eterno ritorno” di certi argomenti che vengono sviluppati nel corso di più spettacoli (penso ai Tre capitoli per una buona morte, alla Trilogia dell’inesistente, ma anche alla vostra ultima produzione che porta il titolo Episodi di assenza 1, a preannunciare l’intento di dare un seguito a questa riflessione). A cosa si deve la scelta del raggruppamento di più spettacoli? Si deve al fatto di non voler fossilizzare in un’ora di lavoro una tematica o un pensiero che è ancora in via di sviluppo. Nel momento in cui non vogliamo porgere delle verità ma una riflessione, questa si dipana negli anni, si sviluppa, si modifica. Quindi si deve al desiderio di lasciare aperte su una tematica altre possibilità nel corso degli anni. Cosa che non abbiamo fatto, ad esempio, con Monopolista, spettacolo del 2017 che è un capitolo unico. Lì abbiamo preso come pretesto il gioco del Monopoli e abbiamo deciso di risolvere tutto in un unico episodio. Ma ci sono temi che hanno necessità di più aria, di più respiro e la trilogia si presta in questo senso. Roberto ha accennato tempo fa, nel corso di un’intervista, al fatto che i vostri spettacoli attingano da un linguaggio extra-teatrale che è quello della vignetta. Ci dici di più rispetto a questo aspetto e al vostro modo di costruire uno spettacolo in generale? Il discorso della vignetta riguarda il fatto che nei nostri spettacoli non ci sono dei personaggi o una storia, ma delle schegge, delle domande che hanno risposte fulminee. In un certo senso, le questioni sembrano esaurirsi in due battute, richiamandosi così a un fumetto. I dialoghi sono fulminei e brevi, anche se certi argomenti poi ritornano, si ribaltano, vi si aggiungono altre questioni, si cambia argomento, ci si sposta in alto e in basso, alternando continuamente. In questo senso la strip è l’immagine che più si avvicinava alla nostra modalità. Il nostro modo di costruzione degli spettacoli l’abbiamo trovato quando pensavamo di abbandonare il teatro, dopo il lavoro MeDeo che aveva avuto un riscontro pessimo. Ci avevano detto che avevamo messo troppe cose insieme – video, musiche, cambi costume, scenografie – un po’ così, come quelli che accumulano tanti oggetti in un garage. Quello era il momento per una svolta, che nasceva anche dalla consapevolezza che una denuncia diretta, in teatro, non funziona. Perché quando a teatro fai denuncia, quasi sempre parli con persone che già la pensano come te e il messaggio diventa quasi ridondante. Abbiamo pensato allora di guardare a noi stessi, di analizzare noi che abbiamo già assorbito tutte quelle scorie che in qualche modo critichiamo e da cui vorremmo tenerci un po’ in disparte, ma che inevitabilmente fanno parte anche di noi. La telecamera è diventata lo strumento per guardarci: ci siamo messi davanti alla telecamera e abbiamo iniziato a parlare così, sotto voce, come poi abbiamo continuato a fare. Ci è sembrata una modalità abbastanza assurda, sia per la staticità, sia per il tono di voce, sia per le pause lunghe, ma allo stesso tempo, riguardando il video, qualcosa ci ha affascinato: una sorta di tensione, di atmosfera rarefatta, astratta; siamo atterrati su questa strada. Cosa pensi del ruolo della critica teatrale oggi e che rapporto avete instaurato con la critica? Chi ci apprezza ci frequenta anche perché ci si avvicina e si può dialogare, chi invece non ci apprezza ci evita, quindi è un po’ un rapporto – come dire – “forzatamente naturale”, un po’ come quando a pelle ci si piace oppure no. Parlando proprio ieri con una persona che frequenta il teatro da poco tempo, si discuteva di come questo non entri nell’immaginario delle persone (non si parla mai di teatro!) e questa persona mi diceva però che provando a leggere degli articoli sul teatro non ne ha capito quasi nulla (e non si tratta di una persona che in generale fatica a comprendere discorsi complessi). Su questa affermazione ho riflettuto, perché non è da ieri che si afferma che il teatro sia un cerchio chiuso che si parla addosso e non esce mai dalla sua nicchia. Forse serve un linguaggio diverso, cercare parole nuove per concetti complessi potrebbe aiutare ad avvicinare chi ancora non si è accostato o chi ancora ci guarda con diffidenza. Il lavoro del critico secondo me è importantissimo perché è proprio il medium tra noi e lo spettatore, quindi è giusta la critica in quanto tale, ma giusto anche valorizzare lo sforzo di un processo produttivo che si sposta dalla tradizione, da ciò che è consumato, apprezzato e divulgato. La diffusione, la divulgazione hanno un valore e questo secondo me un po’ manca. Sarà pure un discorso di formazione del pubblico. Sono discorsi che si fanno da tanti anni ma ancora non si trova la formula giusta per attuarli. Un messaggio per i giovani che muovono oggi i loro primi passi nel mondo del teatro? Io vedo spesso negli esiti del Premio Scenario a Santarcangelo tanto entusiasmo, tanta energia, tanta speranza, tanta fiducia nel proprio lavoro. Ma, molto spesso, non vedo dubbi. Dubitare di ciò che si fa credo che sia fondamentale, mettere continuamente in discussione il proprio lavoro, stare in uno stato di veglia, non compiacersi. È importante la messa in discussione di se stessi, del perché si sta facendo teatro, dell’avere qualcosa da dire e della forma con cui dire. Mettersi in dubbio serve ad acquisire consapevolezza di ciò che si fa e avere consapevolezza è importante.
Martina Vullo
]]>L'autore
-
Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.