Casavuota lo spettacolo Un cristiano, opera che tratta l’ultimo anno di vita di Don Giovanni Fornasini, parroco di Sperticano (frazione di Marzabotto) durante il periodo della strage e ucciso anch’egli pochi giorni dopo all’età di soli 29 anni. L’eccidio avvenuto il 29 settembre 1944 nella zona di Monte Sole, è l’apice di una striscia di dolore che le SS, provenienti dalla Versilia, hanno tracciato svalicando gli Appennini e ritirandosi sulla linea gotica. Berti – qui attore, regista e drammaturgo – si avvicina alla figura di questo prete tessendo una drammaturgia che prende le mosse dal capitolo L’angelo di Marzabotto, che Luciano Gherardi dedica al parroco di Sperticano nel suo libro Le querce di Monte Sole. Ne presenta la storia non attraverso il racconto in terza persona – come precisa prima di iniziare lo spettacolo – ma facendo uso esclusivo del discorso diretto: il testo intreccia le voci di Don Giovanni, dei suoi parrocchiani, degli ufficiali tedeschi, affiancate a brani del vangelo; questi ultimi alimentano un incontro parallelo tra la passione di Cristo e gli ultimi giorni di vita del parroco. Una «opera a voci», così Berti definisce la sua drammaturgia. E con le voci si incrociano anche le lingue, l’italiano, il tedesco, il latino delle omelie, e il tedesco maccheronico che Fornasini aveva imparato per trattare coi tedeschi, nel tentativo di strappare loro più vite possibile. [caption id="attachment_1424" align="alignnone" width="850"] ph di Stefano Vaja (anche la precedente in apertura)[/caption] Il pubblico è sistemato, come tanti commensali, attorno a un tavolo coperto da una tovaglia bianca; sopra spicca un abito da prete, nero. Alessandro Berti si posiziona a un capo del tavolo, vi posa sopra le mani e con sforzo si spinge fino a raddrizzarsi e iniziare il suo monologo a più personaggi. Sempre dalla stesso posto afferra per mano l’attenzione dello spettatore con i botta e risposta che prendono vita nel testo, accompagnati dalle interazioni con il tavolo: i pugni che battono ricreano l’incubo dei bombardamenti mentre lo sfregare sulla tovaglia rammenta il rumore dei pedali della bicicletta, compagna di Don Giovanni nei suoi spostamenti. La forza dello spettacolo è nel ritmo dettato dal fluire di repentini cambi di espressioni e di tono della voce, che accompagna storie di vite salvate e di altre invece perdute: come i morti recuperati con barelle improvvisate per concedergli degna sepoltura, o l’esplosione che i tedeschi scambiano come attentato e che il parroco riesce a dimostrare essere un furto di benzina finito male, salvando così vite dalla rappresaglia. Fino all’inevitabile conclusione, quando Don Fornasini deve raggiungere il comando tedesco e andare incontro al suo destino: «Quando ritorno mi vedrete, ciao», dice prima di illuminare il proprio viso con un genuino sorriso. Passa qualche secondo e le luci si spengono, lasciando il pubblico solo ad assaporare la tragica risonanza di quelle ultime parole, visto che Don Giovanni Fornasini, al contrario di Cristo, non ritornerà. Le vicende che emergono dalla Resistenza sono sempre più relegate al passato, come echi da riesumare e commemorare, a volte anche distrattamente. La loro rielaborazione estetica, come questa operata da Berti, riesce invece a spogliarle dalla retorica, restituendone la qualità di momenti generativi della nostra storia contemporanea.
Matteo Boriassi
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.