Ricordate gli antichi fasti della tragedia greca, la monumentalità del suo numeroso coro, l’aulica solennità dei suoi personaggi? Ebbene, dimenticate tutto questo. Dimenticate ogni retaggio scolastico, allontanate ogni tentativo di recuperare quello spazio nella vostra memoria, rimovete ogni pregiudizio e imparate a vivere lo spettacolo così com’è, senza cambiarlo, senza che siano le vostre aspettative a determinarne la sorte.
Una scenografia minimal, costituita dal solo corpo morto di Polinice e da una panca che funge da quinta per i cinque attori in scena dall’inizio alla fine, un coro interpretato dal solo corifeo: niente di più lontano dal comune immaginario sulla tragedia greca, ma, allo stesso tempo, niente di più vicino a essa.
Da uno sguardo più accurato sul movimento degli attori si può riscontrare l’esigenza di esteriorizzare con il corpo la vita interiore propria di ogni personaggio: Antigone, forte della causa che vuole difendere, avanza decisa per poi indietreggiare, voltando così le spalle alla legge umana; Creonte, frontale e statico, a suggerire la fermezza delle proprie convinzioni; il corifeo, a braccia aperte verso la comunità idealmente rappresentata dal pubblico, allarga lo spazio scenico al teatro tutto, modello di una società portatrice a sua volta di determinati valori.
Ma c’è un altro “movimento” su cui si focalizza maggiormente l’attenzione di tutti: quello delle luci, che, accese o spente su Polinice, offrono efficacemente l’idea del seppellimento o disseppellimento del cadavere, rendendo un personaggio inerte partecipe dell’azione. Un’azione mai del tutto compiuta o predeterminata, ma che si materializza in maniera diversa e polivalente nella mente di ogni spettatore, grazie alla scelta, condivisibile, di prestar fede al testo originale e ambientare la scena in tempi moderni, a riprova, ancora una volta, della valenza universale della tragedia greca.
Illuminante al riguardo l’incontro con il regista, avvenuto presso l’Arena del Sole in occasione del “Conversando di teatro” tenutosi il sabato pomeriggio prima della penultima replica, dal quale è emerso un invito a “superare la dualità”. Tra vivi e morti, intendeva lui; tra passato e presente, aggiungerei io.
Il teatro ci insegna a vivere qui ed ora, ci ricorda che la morte c’è e che bisogna prendere una decisione. Questo il messaggio – quello che ci è parso di afferrare in modo più diretto – che Massimiliano Civica vuole trasmettere. Nessuna pretesa di incitare all’azione politica facendosi portavoce di grandi ideologie, tantomeno di suggerire una interpretazione religiosa del reale. E quale testo potrebbe perseguire al meglio lo scopo prefissato, se non l’Antigone di Sofocle? Ci sono i vivi, ci sono i morti, c’è un vivo che deve scegliere e c’è un morto che è morto perché ha fatto una scelta. Si vince e si perde, ma il premio o il castigo non contano; non c’è un’Antigone giusta e un Creonte sbagliato o viceversa, perché quello che è veramente importante non è cosa si sceglie, ma il fatto instrinseco dello scegliere.
Sono gli stessi antichi a insegnarci a vivere il presente, attraverso la pratica innata di cogliere l’eternità dentro l’attimo. Il “carpe diem”, per citare una massima divenuta lapidaria, di cui risuonano echi in tutta la letteratura classica, è un invito a godere del momento senza fare troppo affidamento nel futuro, un monito a vivere quello che, per ricollegarci alla tradizione greca, è il tempo qualitativamente misurabile e perentoriamente traducibile con una sola parola: kairòs.
Una scenografia minimal, costituita dal solo corpo morto di Polinice e da una panca che funge da quinta per i cinque attori in scena dall’inizio alla fine, un coro interpretato dal solo corifeo: niente di più lontano dal comune immaginario sulla tragedia greca, ma, allo stesso tempo, niente di più vicino a essa.
Da uno sguardo più accurato sul movimento degli attori si può riscontrare l’esigenza di esteriorizzare con il corpo la vita interiore propria di ogni personaggio: Antigone, forte della causa che vuole difendere, avanza decisa per poi indietreggiare, voltando così le spalle alla legge umana; Creonte, frontale e statico, a suggerire la fermezza delle proprie convinzioni; il corifeo, a braccia aperte verso la comunità idealmente rappresentata dal pubblico, allarga lo spazio scenico al teatro tutto, modello di una società portatrice a sua volta di determinati valori.
Ma c’è un altro “movimento” su cui si focalizza maggiormente l’attenzione di tutti: quello delle luci, che, accese o spente su Polinice, offrono efficacemente l’idea del seppellimento o disseppellimento del cadavere, rendendo un personaggio inerte partecipe dell’azione. Un’azione mai del tutto compiuta o predeterminata, ma che si materializza in maniera diversa e polivalente nella mente di ogni spettatore, grazie alla scelta, condivisibile, di prestar fede al testo originale e ambientare la scena in tempi moderni, a riprova, ancora una volta, della valenza universale della tragedia greca.
Illuminante al riguardo l’incontro con il regista, avvenuto presso l’Arena del Sole in occasione del “Conversando di teatro” tenutosi il sabato pomeriggio prima della penultima replica, dal quale è emerso un invito a “superare la dualità”. Tra vivi e morti, intendeva lui; tra passato e presente, aggiungerei io.
Il teatro ci insegna a vivere qui ed ora, ci ricorda che la morte c’è e che bisogna prendere una decisione. Questo il messaggio – quello che ci è parso di afferrare in modo più diretto – che Massimiliano Civica vuole trasmettere. Nessuna pretesa di incitare all’azione politica facendosi portavoce di grandi ideologie, tantomeno di suggerire una interpretazione religiosa del reale. E quale testo potrebbe perseguire al meglio lo scopo prefissato, se non l’Antigone di Sofocle? Ci sono i vivi, ci sono i morti, c’è un vivo che deve scegliere e c’è un morto che è morto perché ha fatto una scelta. Si vince e si perde, ma il premio o il castigo non contano; non c’è un’Antigone giusta e un Creonte sbagliato o viceversa, perché quello che è veramente importante non è cosa si sceglie, ma il fatto instrinseco dello scegliere.
Sono gli stessi antichi a insegnarci a vivere il presente, attraverso la pratica innata di cogliere l’eternità dentro l’attimo. Il “carpe diem”, per citare una massima divenuta lapidaria, di cui risuonano echi in tutta la letteratura classica, è un invito a godere del momento senza fare troppo affidamento nel futuro, un monito a vivere quello che, per ricollegarci alla tradizione greca, è il tempo qualitativamente misurabile e perentoriamente traducibile con una sola parola: kairòs.
Giorgia Renghi
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.