Appunti, pensieri non ancora del tutto formalizzati, suggestioni, ipotesi di discussione a partire dagli spettacoli visti. Una forma aperta, non saggistica, un racconto per frammenti ospitato una volta alla settimana, una scrittura quasi in presa diretta per provare a testimoniare la complessità e diversità delle proposte teatrali del presente.
L’ultima profezia
L’orrore è uno di quei generi che tendiamo a associare più al cinema che al teatro ma è solo una consuetudine, derivata dal fatto che nella scena italiana la ricerca attorno all’orrore non è attualmente molto prominente a livello creativo. Fabio Condemi è un regista che di recente si è avvicinato al tema con Nottuari, opera di dichiaratamente derivativa dei romanzi di Thomas Ligotti, ma meno dichiaratamente da H.P. Lovecraft e Robert Williams Chamber, un complesso dispositivo di incastri scenici-drammaturgici-performativi, sorretto da un testo solenne e invadente, un lavoro sicuramente affascinante ma non abbacinante come avrebbe voluto il suo autore. L’orrore infatti è un genere difficile, necessita di tensione, di abili crescendo d’intensità che si risolvono con ciò che lo spettatore ovviamente si aspetta, ma non vuole comunque essere disatteso. L’angoscia dev’essere reale anche se largamente pronosticata. Cuma in poco meno di 20 minuti fa questo e altro. Lineare, prevedibile, scontato, eppure uno dei più sorprendenti lavori coreografici di tutto l’anno, presentato il 22 luglio durante la seconda parte del festival Kilowatt a Cortona. Michele Ifigenia Colturi mette in scena il corpo nudo di Federica D’Aversa senza nessun orpello scenico, se non un abile gioco di luci dal forte connotato drammaturgico coordinato da Federico Calzini. D’Aversa è la Sibilla colta nell’intento di esprimere l’ultima profezia, quella assoluta, che guarda all’abisso sapendo di essere corrisposta, e da qui il suo folle travaglio per esprimere quell’empio svelamento. Un corpo spigoloso, magro, definito dalle ombre nette e scure che ne scavano gli anfratti, una coreografia a tratti contorsionista, che si sofferma sui movimenti muscolari dell’addome e sugli inarcamenti innaturali della schiena, per poi deflagrare in brevi azioni a metà tra una performance di Hermann Nitsch e i corpi mutati di Cronenberg. L’orizzontalità del palco viene sfruttata per creare la tensione, gli improvvisi bui fanno roteare gli occhi alla ricerca del nuovo luogo dove emergerà il corpo posseduto della Sibilla, compare in fondo a destra, nel proscenio, nel mezzo del palco, in preda a spasmi febbrili. Come il piatto e nero mare nei dipinti di Böcklin una musica elettronica composta di bordoni aumenta d’intensità affogando lo spazio sonoro, le luci tagliano lo spazio in complessi controluce che lasciano la silhouette contorcersi febbrilmente, lasciando il resto nel nero assoluto. Il rito di divinazione si conclude nel più tragico dei modi, un urlo innaturale che squarcia il volto della Sibilla in una smorfia mostruosa. Il finale però non è ancora arrivato, e non ve lo racconterò. Non c’è nessun pelo nell’uovo da cercare, Ifigenia ha avuto l’intelligenza di non dilatare la propria visione, restando su un minutaggio che non lascia insoddisfatti ma che anzi premia lo spettatore con una intensità che non ha bisogno di calare, ma può permettersi il lusso di restare tesa pochi istanti prima che diventi insostenibile. Giuseppe Di Lorenzo
(foto di Luca Del Pia)
Ateliersi e Ustica. Cercare la solidità degli oggetti
«Sulla mia scrivania ci sono molti oggetti. Una lampada, un portasigarette, un calendario a pulsante, una sveglia. È già da parecchi anni che medito di scrivere una storia che abbia per protagonista uno degli oggetti che si trovano sulla mia scrivania. E così, una certa storia dei miei gusti entrerà in questo progetto». Georges Perec avrà mai portato a termine questa storia immaginaria, come ci confida in Pensare/classificare? Descrivendo alcuni oggetti presenti nel suo tavolo di lavoro, equiparato da lui stesso a un territorio mai ordinato a caso e abitato da elementi scelti e preferiti ad altri, vuole portare a termine un atto di scrittura che scopriamo, qualche pagina dopo, essere esercizio di memoria. Scrivere con gli oggetti e degli oggetti perché si comincia ad avere paura di dimenticare, come se non fossimo più capaci di trattenere nulla della vita che scorre, a meno di non annotare tutto scrupolosamente.
Oggi, a teatro, a questo sforzo di ricordanza, conservazione e nominazione delle cose si associa la preziosa drammaturgia di Andrea Mochi Sismondi nel lavoro Il linguaggio degli oggetti. Composizione per parole e sguardi sull’opera di Daniele Del Giudice, che ha debuttato a Bologna lo scorso 19 luglio fianco a fianco un enorme edificio e come divaricandosi fisicamente sul suo profilo: il Museo per la Memoria di Ustica, contenente il relitto dell’aereo DC9 di Itavia precipitato il 27 giugno del 1980. Uno sforzo, quello di Ateliersi, rispettivamente collettivo artistico e spazio di sperimentazione a Bologna, per cogliere qualcosa appartenente alla nostra storia pubblica e alla nostra esperienza, portato avanti, in modo obliquo e non affrontando di petto la vicenda, all’interno di un’area verde della città, nel cuore della Bolognina, il Parco della Zucca.
Al pari della storia che vuole comporre Perec, la drammaturgia stessa di questo spettacolo, racchiuso in una rassegna ben più ampia realizzata dall’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica a partire dal 27 giugno, ha il merito di professarsi come immaginaria e fittizia e spingersi verso un estremo, tenendo insieme, attraverso una tensione combinatoria sempre cangiante ed estrema, la strage, il punto in cui si installa l’esattezza della scrittura di un autore italiano, Daniele Del Giudice, e il sentimento di un’epoca, considerato da un’altra angolatura, quella degli oggetti e del succedersi delle cose nel tempo in relazione alla loro forma, funzionalità e mutevolezza o obsolescenza. Una scrittura, quella di Sismondi, capace di mescolare sul palco più registri, facendosi ora trattato, poi cronaca, ancora descrizione scientifica e indagine, un altro momento discorso pubblico e dialogo a due voci accavallate, fino a darsi, all’inizio e nella parte finale, anche come racconto fittizio, tutto giocato nel chiedere allo spettatore “di fare finta che”. Più volte, infatti, i due interpreti ai lati estremi del palco, Fiorenza Menni e lo stesso Sismondi, alludono a dei rapporti illusori ed evanescenti attorno ai quali si genera la tensione di questo lavoro. Una prima volta quando per parlare del loro incontro con l’opera di Del Giudice, ammettono, che esso può sostanziarsi e vivificarsi su un palco soltanto tramite un rapporto immaginario, che a teatro si sceglie di far accadere appositamente. Una relazione finta, semplice e presupposta a tavolino, che non può essere intima o personale con questa figura, ma che, tuttavia, si apre alla fantasia, fino ad affondare e precipitare vertiginosamente nell’esattezza del linguaggio di quest’autore romano, che per ben due volte nel corso della sua carriera ha incontrato la strage di Ustica. Una seconda volta quando entrambi, Menni e Sismondi, ripetono per ben due volte a inizio e fine: «se qui ci fosse un capitolo su Ustica, dicevo, sarebbe la storia dell’aereo perché l’aereo conosce la sua storia. In mancanza di parole, sarebbe una storia di cose, storia di metallo, metallo fendente e metallo offeso». Oltre alle loro parole infestanti, la scena è abitata dalle tracce sonore ipnotiche, oscillanti e altrettanto infestanti di Vincenzo Scorza e da una partitura fisica, eseguita da quattro performer: Anna Orsini, Marco Mochi Sismondi, Sarah Saïdi e Wali Sidibé. Di tutti quegli oggetti a bordo del veicolo, adesso, il teatro sa e il teatro ne trattiene memoria, chiedendoci di guardare che cosa risiede dietro dei fatti e dietro le cose. Damiano Pellegrino
(foto di Mirko Matera)
Memorie e ricordi in viaggio
Olinca e Petrilla Giramondo ci attendono sulla soglia della loro casa mobile. La trasportano in bicicletta, poi ogni tanto si fermano e aprono le porte della loro bizzarra abitazione per condividere memorie e ricordi. Prima di entrare suoniamo una piccola campanella per annunciarci. Le due donne ci aiutano a salire due minuscoli scalini e dietro a una porta (che in realtà è una tendina che ci permette di mantenere un contatto con l’esterno) si apre un altro incredibile mondo che riesce a stare tutto in pochissimi metri quadrati. Quella a cui ho assistito il 22 giugno negli spazi temporanei del Teatro Testoni (Sala Cento Fiori a Bologna) è Casa Mobile a Pedali. Piccolo viaggio poetico dove accadono cose, un’esperienza immersiva rivolta a due spettatori alla volta dai 4 anni, pensata dal collettivo artistico pugliese Principio Attivo Teatro, che fin dai suoi esordi realizza drammaturgie originali di spettacoli dedicati sia alle nuove generazioni che a un pubblico adulto. È incredibile come a volte sia necessario attendere esperienze come questa per fermarsi e mettersi in ascolto. La sensazione di entrare in questo micromondo e lasciarsi guidare da una voce (che poi scopriremo essere quella della casa stessa) che ci invita a scoprire i segreti di uno spazio piccolissimo ma ricco di particolari è piacevolissima. Nel breve viaggio immersivo che viene proposto è forte e immediata la sensazione di stupore nel ritrovarsi in uno spazio incantevole e minuziosamente costruito e di curiosità e responsabilità verso il luogo nel quale veniamo accolti (e che ha tutte le fattezze di una vecchia casa che nel nostro immaginario potrebbe richiamare quella di una nonna che conserva, custodisce e a volte nasconde anche agli occhi dei piccoli oggetti misteriosi di ogni genere). Una volta accomodati all’interno della casa ci mettiamo in ascolto di una storia avventurosa di famiglia (magari comparandola alla nostra storia famigliare), osserviamo con attenzione ogni cosa per non perdere nulla di quella visione incantevole, attendiamo con ansia il momento in cui la voce che ci parla inizierà a invitarci a toccare, aprire, sfogliare (perché sappiamo che quel momento arriverà). Mentre il mio sguardo si perde tra ampolle, barattoli, libri, cassetti e oggetti di ogni tipo, ecco che ci viene consegnata della posta: il mondo esterno fa irruzione in questa sorta di isola che per un attimo ci ha fatto sentire dovunque e in nessun luogo.
È un pacco e naturalmente non è indirizzato a noi, che siamo ospiti, ma ci viene chiesto di aprirlo. Scopriamo così un altro ricordo che viene da lontano, da uno dei tanti viaggi delle abitanti di questa casa, le cui buffe fotografie sono appese alle pareti. A poco a poco prendiamo confidenza con quel luogo, impariamo a conoscerlo, a capire che cosa possiamo e che cosa non possiamo fare, che cosa possiamo toccare e che cosa possiamo solo guardare. La voce ci avverte quando un oggetto va maneggiato con cura. All’inizio sembra di essere all’interno di un piccolo museo in cui ogni cosa ha una storia da scoprire, con la differenza che di tanto in tanto ci è concesso di entrare in contatto gli oggetti che la evocano, oggetti che sono appartenuti a qualcuno (che forse non c’è più), presi in qualche luogo (che forse non esiste più), in qualche tempo (che forse non abbiamo conosciuto). Memoria e ricordo sono certamente le prime due parole alle quali viene subito da pensare nel momento in cui mettiamo piede in questo angolo di casa. Non è ben chiaro se abbia i tratti di una cucina o di un salotto o di una camera da letto o di uno studio con una libreria, ma sembra di essere contemporaneamente in tutti questi spazi, negli ambienti intimi di una casa (forse quelli che tendenzialmente invitano al racconto?). La carta da parati, i libri, un vecchio bollitore, barattoli, ampolle di essenze. Questo spazio, che percepiamo subito famigliare, tocca il nostro immaginario, forse il nostro stesso vissuto. E anche se non dovesse coinvolgere né l’uno nell’altro, come forse potrebbe accadere nell’esperienza di un giovanissimo spettatore, stimolerebbe di certo la curiosità. In fondo gli adulti e i bambini non sono molto diversi di fronte a un cassetto chiuso: desiderano solo scoprirne il contenuto. Penso subito al “cestino dei tesori” inserito nell’educazione Montessori e ideato dalla psicopedagogista britannica Elinor Goldschmied. Si tratta di semplici oggetti comuni di diversi materiali e consistenza, anche di uso quotidiano, inseriti in un cesto che i bambini possono esplorare in autonomia fin da piccolissimi e sviluppare così i cinque sensi, ma non solo, l’invito è anche alla concentrazione, all’essere qui e ora. L’adulto è un semplice spettatore davanti al bambino che apprende. Anche la casa mobile ci osserva, attende le nostre reazioni, si assicura che stiamo seguendo le sue indicazioni, ci invita a toccare, annusare, osservare e sembra godere del nostro piacere della scoperta. Ancora una volta ho l’immagine di una nonna o di una vecchia zia che ridacchiano davanti ai nostri occhi spalancati dalla meraviglia mentre ascoltiamo le loro storie (perché immagino solo donne? Forse perché l’azione del raccontare la considero inconsciamente una pratica femminile? O forse perché la voce della casa è quella di una donna e sono due donne anche quelle che ci accolgono?).
Mi viene in mente una recente lettura Un’estate con la strega dell’ovest di Kaho Nashiki. La protagonista, Mai, una ragazza di tredici anni si ritrova a trascorrere l’estate con la nonna. L’impatto è forte, non solo perché la sua stessa nonna è per lei quasi un’estranea, ma anche perché dovrà imparare a vivere in una nuova casa. In un certo senso si può dire che la casa della nonna è la nonna stessa, nel momento in cui ne diventa custode dei ricordi, luogo dell’intimità, spazio organizzato a immagine e somiglianza di chi la abita. A proposito di case “animate” mi viene sicuramente in mente quella della Baba Yaga, la famosa strega della mitologia slava la cui casa poggia su zampe di gallina, alla quale sono attribuiti poteri e oggetti magici, nonché una funzione iniziatica. Anche della nonna di Mai si allude al fatto che sia una strega, anche se non leggiamo mai di incantesimi o magie, piuttosto della sua conoscenza della natura e delle piante, che a poco poco trasmette alla nipote, della sua capacità di stare nel presente e allo stesso tempo di riuscire a contattare il futuro attraverso una sorta di premonizioni sulla sua stessa vita. La sua casa è piena di segreti e oggetti che custodiscono storie e ricordi. La camera del nonno di Mai è rimasta intatta dopo la sua morte e ogni oggetto parla delle sue passioni, la stanza di Mai, che era quella dell’infanzia della madre, prima di essere occupata dalla ragazza, viene svuotata da sua madre, che evidentemente preferisce non condividere tutti i suoi ricordi con la figlia. Questo dimostra ancora una volta la potenza delle storie che sono dietro a un oggetto ed è interessante che gli oggetti della casa mobile siano anche poetici e fantasiosi, come i barattoli che contengono venti e aquiloni, perché i ricordi a volte si confondono nella memoria, si trasformano e possono restare sospesi tra realtà e immaginazione. È così che un barattolo vuoto diventa testimonianza diretta e palpabile di un viaggio e una nonna una strega che, come la Baba Yaga, attraverso semplici e silenziosi rituali di iniziazione, aiuta a crescere e a cambiare completamente la propria vita. Come Mai nel romanzo di Nashiki, noi spettatori ci muoviamo nella piccola casa che ci ospita quasi in punta di piedi perché è uno spazio che non ci appartiene. Tratteniamo il fiato fino alle prime parole della casa mobile che, come la nonna di Mai, ci invita subito a guardarci intorno, a prendere confidenza con lo spazio, a darci le prime responsabilità, fino a permetterci quel gesto intimo di aprire un pacco personale attribuendoci definitivamente una piena fiducia. La casa mobile a pedali, infine, nel lasciarci andare dopo la breve immersione nei suoi ricordi (dei quali ormai anche noi siamo parte), ci invita a scriverle una cartolina, e a tornare se vogliamo. Ci saluta dalla soglia insieme a Olinca e Petrilla come una persona di famiglia che vive lontano e non sa se quando torneremo, ma è sicura di averci lasciato qualcosa. Ci ha lasciato una storia, una memoria, importante non tanto di per sé ma per il fatto stesso che qualcuno ha investito il proprio tempo per raccontarla. Nella Califano
(foto di Giovanni William Palmisano)
Gli spettacoli
Cuma, coreografia di Michele Ifigenia Colturi; dramaturg Ciro Ciancio, Riccardo Vanetta; performer Federica D’Aversa; suono di Tarek Bouguerra; produzione Anghiari DanceHub, Ariella Vidach AiEP
Il linguaggio degli oggetti. Composizione per parole e sguardi sull’opera di Daniele Del Giudice di e con Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi e con Marco Mochi Sismondi, Anna Orsini, Sarah Saïdi e Wali Sidibé; progetto sonoro di Fiorenza Menni e Vincenzo Scorza (elaborazione ed esecuzione musicale); comunicazione e progettualità Tihana Maravic; promozione e distribuzione Antonella Babbone; amministrazione Greta Fuzzi; direzione tecnica Giovanni Brunetto e Vincenzo Scorza; assistenza tecnica Alessandro Iannetti e Moussa Messelem; una produzione di Ateliersi; in collaborazione con Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, Sup de Sub/LFKs e Masque Teatro; con il sostegno di Ministero della Cultura, Regione Emilia-Romagna e Comune di Bologna
Casa mobile a pedali. Piccolo viaggio poetico,di e con Cristina Mileti e Francesca Randazzo; musiche originali di Leone Marco Bartolo; in collaborazione con CpK Lecce e Piero Di Silvestro; produzione Principio Attivo Teatro; con il sostegno di Giallo Mare Minimal Teatro.
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.