Appunti, pensieri non ancora del tutto formalizzati, suggestioni, ipotesi di discussione a partire dagli spettacoli visti. Una forma aperta, non saggistica, un racconto per frammenti ospitato una volta alla settimana, una scrittura quasi in presa diretta per provare a testimoniare la complessità e diversità delle proposte teatrali del presente.
La campana suona sempre per tutti. Autroritratto di Davide Enia
L’abside di Santa Maria della Stella a Spoleto, adibita ad eventi spettacolari, è stata recentemente ritinteggiata. Campeggia al posto del bianco un rosso profondo, tra il Pompeiano e il Terra di Siena, con effetto marezzato. Scenografia perfetta per Autoritratto di Davide Enia, in prima assoluta al Festival Dei Due Mondi. Nello spazio vuoto questo colore all’inizio colpisce, come fosse un’invenzione teatrale, poi disturba, per eccesso di intensità, e infine dilaga, quasi colasse via dalle pareti per immergere la platea. Questa percezione è provocata dal lungo monologo di Enia, accompagnato dalla chitarra di Giulio Barocchieri, che comincia con l’immagine di una pozza di sangue. Il racconto autobiografico parte dall’infanzia, quando a soli otto anni, a due passi da casa, Enia scorge per terra una vittima di mafia. Il dolore lancinante, la paura, l’impossibilità di capire si mescolano assieme in un nodo stretto alla gola che perseguita il racconto. Dall’emozioni personali la narrazione abbraccia prima la famiglia, gli amici, la scuola e poi tutta Palermo, come fosse essa stessa un personaggio, fatto di tic, nevrosi, omertà, desiderio di vendetta, volontà di reagire, ma anche connivenza, paura, immobilismo. La morte di don Pino Puglisi, professore di religione, pacato e determinato, ucciso dalla mafia, la strage di Capaci e via D’Amelio, con gli omicidi di Falcone e Borsellino, l’orribile vicenda del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un collaboratore di giustizia, sciolto nell’acido dopo due anni di detenzione disumana, vengono raccontate dal punto di vista di Enia, come li ha vissuti prima da bambino e poi da ragazzo. E va tenuto presente che a Palermo i gradi di separazione con Cosa Nostra sono pochissimi. Viene fuori una storia orale che permette di offrire uno sguardo dal basso e obliquo, che indugia su dettagli e riflessioni che hanno un ritmo differente dalla narrazione mediatica più nota e consolidata. Il racconto di Enia ha i consueti apici emotivi che trovano forma nel cuntu siciliano. A quel punto la narrazione si distorce, la sintassi diventa essenziale, la lingua si distilla in un battere intenso di parole, in un rito dal sapore antico. Chi conosce il lavoro di Enia sa che a un certo punto dello spettacolo arriverà questo piccolo vortice, dove il suono, il verbo, il corpo, la voce sono compressi assieme, sgorga il dolore e la commozione. E così avviene anche questa volta, con particolare intensità. Rispetto a L’abisso, spettacolo sulle tragedie degli sbarchi sulle coste del Mediterraneo, lo scandalo della morte non si traduce solo in indignazione e, per il pubblico, sulla condivisione di un’indignazione. La campana suona sempre per tutti, è vero, ma questa volta suona in maniera ancora più sinistra, perché la storia della mafia siciliana è più aggrovigliata alle vicende del nostro paese. Il punto di vista di un bambino, e poi ragazzo, palermitano offre la possibilità di complicare la storia. Le riflessioni non vengono portate avanti con l’accetta. I confini si fanno sfumati e per questo disturbano e coinvolgono. «In una culla culturale in cui ‘a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice», scrive Enia, «affrontare per davvero Cosa Nostra significa iniziare un processo di autoanalisi». La pozza di sangue diventa allora l’inquietante superficie dove per un attimo riflettersi e, secondo Enia, tratteggiare almeno in parte l’autoritratto di un paese.
Rodolfo Sacchettini
Una fiaba in linea retta. Thioro, un Cappuccetto Rosso senegalese di Teatro delle Albe
Meta-teatro ed extra-teatro, due dimensioni della rappresentazione scenica spesso ricercate con ammiccamenti drammaturgici o complicazioni narrative, a volte possono irrompere con linearità, come semplice risultante emotiva di una linea retta. Thioro, il cappuccetto rosso senegalese di Teatro delle Albe (regia di Argnani e ideazione di Alessandro Argnani, Simone Marzocchi e Laura Redaelli) e Fallou Diop, Adama Gueye, Andrea Carella (recitazione, percussioni e sassofono), attraversa idealmente questa linea retta, invisibile agli occhi ma a poco a poco sempre più concreta: è la linea d’orizzonte della savana, evocata in questa versione della fiaba in vece della foresta canonizzata da Perrault e Fratelli Grimm, uno spazio più scarno e meno labirintico, forse – in un certo senso – metafisico (nel senso, cioè, della geometria del racconto). Così, scarni ed essenziali sono gli elementi che accompagnano la fiaba: un telo nero circolare al suolo, un piccolo drappo blu a fungere sia da sipario che da costume di scena, strumenti musicali e ritmi di movimento corporeo.
La trasposizione geografica del racconto (dagli immaginari boschivi del nord-Europa alle distese rarefatte dell’Africa subshariana), che genera tra l’altro una discrepanza della visione nel venerdì pomeriggio, quasi sonnacchioso, di fine luglio a Villa Silvia a Cesena, piacevole declivio collinare da cui si scorgono i profili della valle del Savio, forse contribuisce a dare un tocco atavico e ancestrale alla parabola di Thioro-Cappuccetto Rosso. La struttura archetipica arriva come un’eco, non ingombra la narrazione, non grava sulle battute e sui personaggi. Il “c’era una volta” iniziale pian piano si stempera nelle sue componenti più materiche: voce, sudore, rumore – una corsa affannosa e incalzante verso la famigerata “capanna della nonna” e verso la tanto agognata risoluzione dell’intreccio (che possa smorzare la tensione crescente). Eppure, non tutti ci arrivano. Anzi, se consideriamo che si tratta di teatro ragazzi, potremmo dire nessuno: i bambini presenti alla rappresentazione “cadono” uno dopo l’altro, nei diversi momenti in cui lo spettacolo si fa spaventoso e vividamente espressivo (l’attore principale, che interpreta una iena-lupo, ha a un certo punto le labbra contornate di sangue) uno a uno scoppiano in un pianto acuto, abbracciano i propri genitori e implorano di andarsene dal cerchio, si allontanano dalla rappresentazione.
Come dice anche le messa in scena, sono loro Thioro, loro sono Cappuccetto Rosso – non gli adulti che maldestramente vestono i panni di questi personaggi sul palco. Non ce l’hanno fatta: non hanno attraversato la savana, qualcosa – una sincera paura “del fuoco e della notte” – li ha colti prima e ha fatto crollare la loro curiosità in un infantile terrore. O, forse, è questo il vero coraggio che dovevano dimostrare? Forse la “morale” di una fiaba come quella incarnata da Fallou Diop, Adama Gueye, Andrea Carella non sta alla “fine della storia”, nella risoluzione della parabola narrativa, ma dentro l’antro oscuro delle proprie emozioni di bambini-spettatori, in un abbandono dei sensi che può fare anche a meno della visione.
Francesco Brusa
Gli spettacoli
Autoritratto, di e con Davide Enia; musiche Giulio Barocchieri; luci Paolo Casati; suono Francesco Vitaliti; co-produzione CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Accademia Perduta Romagna Teatri, Spoleto Festival dei Due Mondi
Thioro, un Cappuccetto Rosso senegalese, ideazione Alessandro Argnani, Simone Marzocchi e Laura Redaelli; con Fallou Diop, Adama Gueye, Andrea Carella; organizzazione Moussa Ndiaye; regia Alessandro Argnani; coproduzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro, Accademia Perduta/Romagna Teatri, Ker Théâtre Mandiaye N’Diaye; ringraziamenti Casa Residenza Anziani e Centro Diurno “Garibaldi e Zarabbini”
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.