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Un diario per l’estate #2. Una moltitudine di voci sole

di Altre Velocità

Appunti, pensieri non ancora del tutto formalizzati, suggestioni, ipotesi di discussione a partire dagli spettacoli visti. Una forma aperta, non saggistica, un racconto per frammenti ospitato una volta alla settimana, una scrittura quasi in presa diretta per provare a testimoniare la complessità e diversità delle proposte teatrali del presente.

Un attore che sembra recitar se stesso

Uno e nessuno, con la sua tuta bianca e dentro un palco buio, Alberto Boubakar Malanchino vorrebbe incarnare una molteplicità. Molteplicità anonima, e dunque comune a tanti, eppure per certi versi particolarissima specifica quasi bizzarra. Ma non stiamo parlando per forza di personaggi: stiamo parlando di molteplici storie e molteplici luoghi. Una polifonia per voce sola. Sid – Fin qui tutto bene (regia e drammaturgia di Girolamo Lucania, visto al Mattatoio di Roma sabato 24 giugno) è insieme L’odio di Kassovitz e Soffocare di Palhaniuk, un trattato di etnografia culturale sulle periferie globali e un giallo-thriller in cui è difficile discernere la realtà dalla fantasia. Quello che conta forse è unicamente il quadro d’insieme, il ritratto potente ma abbozzato – di un assassino, delle seconde generazioni europee, dell’arte di recitare?

Ciò che va in scena è una (auto)biografia-concerto. Alberto Boubakar Malanchino snocciola eventi date aneddoti, lo fa in forma di “rap”, di flow, giocando sui suoni gutturali e sul continuo alternarsi del timbro di voce, accompagnato da – ma sarebbe meglio dire “amalgamato con” – due musicisti, Ivan Bert e Max Magaldi. Sembra sincero, ma poi si contraddice di continuo. Chiede a tratti la nostra comprensione e fiducia, ma poi prende in giro, “trolla” con strafottenza, lascia intendere che sia tutta una farsa. La storia, per parte sua, si ingarbuglia, è sfilacciata, procede per “quadri” che possiedono rimandi fra loro ma nessuna coerenza. Dov’è allora la verità? Forse, risiede nel solco di ambiguità che sempre si crea quando sul palco c’è “un attore che sembra recitar se stesso”, nello scarto di un gesto performativo che pare eccedere, con la sua precisione e la sua intensità, ciò che intende mettere in scena. Un virtuosismo che si fa significato, parola teatrale che diventa musica e segno. (Francesco Brusa)

(da Cubo Teatro)

Come un pesce sulla terra. Storia di una ferita

Jacques Copeau scriveva che il teatro nasce laddove ci sono delle ferite, dei vuoti. Non era il solo a sostenere questa tesi, nel mondo dell’arte potremmo riportare molte altre affermazioni del genere.

Ma come si porta una ferita a teatro? Come ci si mette a nudo cercando nello stesso tempo di scomparire dietro al dolore perché risuoni nell’intimo di tutti gli spettatori e apra altre possibilità del sentire, rifuggendo il rischio di trasformare la performance in un semplice racconto di se stessi?

Il teatro è sicuramente uno strumento potente di rielaborazione, non è un caso se subito dopo la pandemia da Covid-19 siano andati in scena molti spettacoli in cui sembrava che attori e attrici si stessero servendo del mezzo performativo per raccogliere e riordinare i pezzi della propria esistenza, messa a dura prova da un evento di enorme portata mai vissuto prima.

Siamo negli spazi della Casa di Quartiere Graf di San Donato, a Bologna. Quando Marta Cellamare inizia a muoversi delicatamente sotto uno strato di cellofan, leggerissimo e lattiginoso, tanto simile a una placenta agitata da un vitale movimento interno, sembra di trovarsi di fronte alla difficoltà di esprimersi, di liberarsi. È un corpo che vuole nascere, che ha bisogno di nascere, forse di ri-nascere, per raccontare. Come un pesce sulla terra dialoghi con i Diari di Vaslav Nijinsky è un progetto performativo in divenire che si genera da una ferita, da un vuoto, che percepiamo presente ma allo stesso tempo smarrito tra i ricordi, in quelli di Marta e in quelli di Vaslav. Un’attrice e un ballerino che, attraverso l’intreccio delle parole dei loro diari, mostrano un’intimità complessa, profonda, irrisolta, piena di vita e piena di morte. La voce di Marta è amplificata da un microfono che cattura e restituisce tutto quello che da dentro affiora, i respiri, i sospiri, i silenzi delle lunghe pause cariche di parole non dette. Il volto assorto, come rapito da un’immagine che noi non possiamo vedere. Poi le note di un organetto diatonico e una canzone che ci riporta alle montagne innevate e poi un’altra, così diversa da quella che abbiamo ascoltato prima, eppure stanno tutte e due in perfetta armonia nel ricordo di chi racconta servendosi del corpo, che si abbandona al movimento come scosso d’improvviso da un impulso, e della voce, che racconta, declama, canta, suona. Intuiamo frammenti di biografie che non vengono mai rivelate completamente, avvolte dal mistero delle innumerevoli rotte che la vita può decidere di seguire. Non siamo in grado di individuare con precisione quella ferita dalla quale tutto si origina e non ci interessa più. Siamo dentro a un acquario insieme alla protagonista, vediamo sullo sfondo immagini di un ambiente marino, viviamo dentro la bolla di Marta, bellissima e asfissiante, pervasa di parole potenti e dolorose. Da dove arriva quel dolore che attraversa anche noi?

L’intimità di Marta e di Vaslav inizia piano piano, delicatamente, a dialogare con la nostra. Accade qualcosa. Le loro ferite e le nostre ferite in qualche modo si assomigliano e il sentimento di prossimità che percepiamo è fatto di carne. La parola, il suono, si fanno carne. Il movimento è vivo e anche quello racconta di sé. È la storia di una ferita. (Nella Califano)

(da PanFestival 2023)

Il misterioso palazzo di Circe

Potrebbe accadere di essere accolti amorevolmente in un palazzo da una donna dalla voce meravigliosa. Condividere un ricco banchetto. E poi trasformarsi improvvisamente in maiali. È la punizione che la maga Circe infligge ai compagni di Ulisse. Perché? E chi è Circe? Cosa è in grado di fare? Si innamorerà di Ulisse perché è l’unico a non trasformarsi in porco? A tutte queste domande lo spettacolo Circe di Ilaria Drago, in prima nazionale al festival Inequilibrio di Castiglioncello (30 giugno / 2 luglio), non offre una risposta definitiva. La sorpresa per gli spettatori è che nella stanza del palazzo – qui il Castello Pasquini – non c’è un’unica Circe, ma ce ne sono sei o sette, come se questa figura fosse molto più vicina a un archetipo in trasformazione, che non a un personaggio definito. Sei donne interpretate, o per meglio dire inventate ed evocate, da Ilaria Drago, che utilizza registri attoriali molto differenti. Ogni creatura – alcune più definite ed efficaci, altre più confuse – ha la sua personalità e la sua lingua, soprattutto la sua voce.

La prima è una giovane ragazza con seno rifatto e trucco pesante, costipata in un abitino di farfalla, che mostra in modo sgraziato, eppure commovente, il suo corpo in gran parte nudo. È una donna fragilissima, prigioniera di uno stereotipo di bellezza consumistico, la donna “bambolina” che parla un toscano sguaiato. Accoglie il pubblico e funziona come primo specchio, riflettendo negli occhi dello spettatore il desiderio porcino, più greve. La seconda donna, seduta in un cerchio dal sapore esoterico, ha un tono completamente differente. Le sue evocazioni diventano introspezioni. Il promiscuo rapporto intrattenuto con i compagni di Ulisse non ha il sapore dell’inganno o della dissoluzione, ma di una autentica esplorazione dei propri limiti, della coscienza di sé. È in questo caso una Circe seducente che ribalta molti stereotipi. Così ancora appare una terza figura: donna randagia, abbrutita, ma che sembra depositaria di una morale ancora autentica, impegnata in un lungo monologo contro i narcisismi e le disumanità del presente. Appare anche una figura maschile, ma è poco significativa, perché si mostra come un soldatino bidimensionale che pare uscito da uno spettacolo di Brecht-Weill, senza sfumature, schiacciato nella retorica dei valori militari.

Il merito di questo spettacolo emerge quando le polarità si sfumano, prevalgono i chiaro-scuri, gli stereotipi si sgretolano, la seduzione prevale, l’ironia non è negata. Curioso questo viaggio, che ha il sapore anche di una rievocazione di mondi lontani, quelli della ricerca teatrale. Le voci hanno una notevole ricchezza di registri, che passano dal grottesco al poetico, dalla cantilena alla musica verbale, fino al canto. L’intero spettacolo può essere anche un omaggio a certi stilemi vocali, che in altri contesti suonano sorpassati o leziosi, ma che qui, in questo misterioso palazzo, sembrano evocare storie ancora vive di decenni passati. (Rodolfo Sacchettini)

(foto di Antonio Ficai)

Gli spettacoli

Sid – Fin qui tutto bene con Alberto Boubakar Malanchino; regia e drammaturgia Girolamo Lucania; sound design e colonna sonora live Ivan Bert e Max Magaldi; da un’idea di Ivan Bert e Girolamo Lucania; produzione Cubo Teatro

Come un pesce sulla terra dialoghi con i Diari di Vaslav Nijinsky concept e performance di Marta Cellamare;regia di Riccardo Pisani; con il supporto di L’Asilo, Rete Habitat – spazi per la danza, Teatro del Lavoro di Pinerolo, Spazio 13

Circe, scritto, diretto, interpretato da Ilaria Drago; musiche originali Stefano Scatozza; collaborazione al movimento scenico Claude Coldy; luci Max Mugnai; make up artist Anna Rit, Mila Severini; foto Cristina Latini; produzione Fondazione Armunia

foto in copertina di Alex Giuzio

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