Appunti, pensieri non ancora del tutto formalizzati, suggestioni, ipotesi di discussione a partire dagli spettacoli visti. Una forma aperta, non saggistica, un racconto per frammenti ospitato una volta alla settimana, una scrittura quasi in presa diretta per provare a testimoniare la complessità e diversità delle proposte teatrali del presente.
Una coreografia al contrario
Alle sei di sabato la piazza della Repubblica di Rosignano è praticamente deserta. Il caldo d’inizio estate, di poco incrinato da un filo di vento, si rende visibile nell’assenza di persone. Le poche che ci sono si trovano sedute sotto la struttura di rosso e cemento di Agorà Social. Grazie al festival Inequilibrio ci sono quattro performer sul selciato, ma sembrano uno. È un gruppo, una squadra, uno sciame di singolarità che esegue al perfetto unisono una partitura comune: una serie di salti e movimenti, praticamente degli esercizi di ginnastica, realizzati con la corda. Dietro, alcune casse acustiche diffondono musica elettronica, ritmata, modulare, che sembra andare “a ricalco”, e viceversa, delle ellissi disegnate per aria. Le corde – agitate e frustrate in perpetuo moto – diventano un elemento ipnotico, linee appena percettibili che coagulano attorno a sé una cadenza della visione.
Con do-around-the-world Parini Secondo costruisce una coreografia al contrario: i corpi non si appoggiano su una scrittura prefissata né sono espressivi in quanto tali; sono, piuttosto, al servizio degli oggetti che reggono in mano, le corde che fanno schioccare rumorosamente sul terreno producendo dei click che rispondono alla musica, a volte in battere a volte in levare oppure a sincope, in una sorta di contro-ritmo che si sovrappone alla registrazione. Così, quello degli spettatori è un ascolto che diventa sguardo, una contemplazione che coincide con l’essere catturati dentro una foga sonora – preciso incedere acustico. Al di là della struttura semiaperta sotto cui si svolge lo spettacolo, si scorge la piazza, un parco ancora semi-deserto. Una persona passa in bicicletta, si “intrufola” per pochi istanti nel quadro della visione dalla lontananza, dalla vicina ferrovia si sente un’eco di sferragliare di treni. In scena tutto (ac)cade a metronomo, mentre la realtà è fuori sincrono.
Francesco Brusa
Sovrapposizioni fra storie e paesaggi
Archivio Zeta si sposta dal Cimitero Germanico della Futa per un riallestimento de La Montagna Incantata (parte prima) negli spazi dell’Istituto Ortopedico Rizzoli, in una delle sue sedi nel complesso monastico di San Michele in Bosco, su una zona collinare appena fuori dalle mura bolognesi. Negli stessi spazi è stata allestita anche la seconda parte, la terza sta per debuttare alla Futa e una maratona complessiva è prevista il prossimo anno qui al Rizzoli.
Superando la soglia d’ingresso, lo spazio di un ampio atrio prende le forme di una stazione ferroviaria attraverso il fischiare dei treni in partenza che irrompe in sottofondo: qui ritiriamo i nostri biglietti per Davos, che nell’attesa si improvvisano ventagli come rimedio alla nota afa emiliana in un pomeriggio di fine giugno. Il tempo torna indietro ai primi anni del secolo scorso e partiamo insieme ad Hans Castorp (Giacomo Tamburini), giovane ingegnere navale in visita per tre settimane al sanatorio Berghof, mentre impaziente il suo pensiero è già proiettato al momento in cui farà ritorno ad Amburgo. Il percorso fino alla stazione di Davos segue i corridoi dell’ala monumentale dell’Istituto Rizzoli, dove enormi vetrate si affacciano su un giardino interno. Qui incontriamo Joachim Ziemssen (Pouria Jashn Tirgan) che introduce il cugino Hans al luogo che lo sta ospitando a causa della tubercolosi: le sue parole tratteggiano indizi di un’atmosfera ambigua, restituendo l’immagine di un luogo lontano, isolato, freddo, rigido, accompagnata dal violoncello di Francesco Canfailla. Quasi si inizia a percepire quell’aria tagliente da cui si riparano i protagonisti, avvolti in lunghi e pesanti cappotti. E così appaiono i personaggi che ci vengono presentati in questa prima parte della messa in scena, dai medici (Andrea Maffetti, Giuseppe Losacco, Diana Dardi) ai pazienti, tra cui risaltano la figura dell’umanista Lodovico Settembrini (Gianluca Guidotti), studioso e allievo di Giosuè Carducci, e la seducente Madame Chauchat (Enrica Sangiovanni), moglie di un funzionario russo e spesso ospite di diversi sanatori europei che regolarmente abbandona. Nell’attraversare gli spazi della narrazione, medici e pazienti sembrano rimanere delimitati nei loro corpi, quasi in assenza di interazioni reali. Ci vuole tempo per abituarsi a questo luogo: qui l’aria è diversa, perfetta per la salute, tanto quanto per la malattia, che trova un ambiente adatto per potersi manifestare.
E dalla lente della malattia, l’uomo sembra diventare solo corpo, configurandosi come luogo dove ogni impulso o stimolo si riversa rendendosi sintomo, e di cui diventa necessario prendersi cura, nel riposo e nella distanza da ogni possibile male. Fin troppo sicuro del proprio stato di salute, Hans rifiuterà scettico di seguire le cure insieme agli altri pazienti della struttura durante la sua permanenza, limitandosi ad accettare di condividere un momento di riposo serale. Ci spostiamo attraversando un altro corridoio verso un chiostro ottagonale: tutto intorno, il portico affrescato da Ludovico Carracci e Guido Reni, in alto gli uccelli volano in cielo e sorvegliano questo strano incontro umano, dove gli spettatori quasi si mescolano alla rappresentazione e ai suoi personaggi. Qui il tempo scorre in modo diverso: la riflessione sul tempo ricorre dalla partenza del protagonista, fino ad attraversare l’intero spazio narrativo. «La nostra più breve unità di tempo è il mese». Se la percezione dello spazio può attraversare la vista o il tatto, la misurazione del tempo non corrisponde a nessun organo umano.
Una volta passato, questo sembra contrarsi rispetto al suo estendersi nel momento presente: la misurazione del tempo sembra non corrispondere al suo effettivo trascorrere, o alla sua percezione. Hans inizia piano piano a tossire e ad avvertire uno stato febbricitante: tutti i sintomi di un’infezione che lo costringerà a prolungare la sua permanenza a Berghof. Le settimane diventano mesi, Hans si immerge nello studio sotto l’influenza di Settembrini, in bilico tra un’elevazione spirituale che nega l’irrazionalità dell’amore che cresce per Madame Chauchat. Lo spettacolo si conclude nell’antico refettorio dei monaci di San Michele in Bosco, decorato da Giorgio Vasari e trasformato a Davos in una sala da ballo in occasione di una surreale festa di carnevale, dove il giovane protagonista confessa il proprio amore, ostacolo alla guarigione dell’animo e del corpo a cui non riesce a sottrarsi. Da parte sua, Madame Chauchat rifiuterà questo paradigma riconducibile alla borghesia tedesca dell’epoca, e abbandonerà il sanatorio per amore della propria libertà. Saranno passate tre settimane, mesi? Due ore? La festa è finita, le luci si spengono, il tempo si riavvolge in avanti e siamo di nuovo a Bologna.
Petra Spadoni Cosentino
Gli spettacoli
do-around-the-world di Parini Secondo x Bienoise; con Sissj Bassani, Martina Piazzi, Camilla Neri, Francesca Pizzagalli; coreografia Parini Secondo; suono Alberto Ricca/Bienoise; costumi e intrecci Giulia Pastorelli; corde MarcRope Milano; organizzazione Margherita Alpini; produzione Parini Secondo, Nexus Factory
La montagna incantata di Thomas Mann (prima parte); spettacolo teatrale itinerante nell’Ala monumentale dell’Istituto Ortopedico Rizzoli; drammaturgia e regia Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni; partitura musicale Patrizio Barontini; con Diana Dardi, Gianluca Guidotti, Pouria Jashn Tirgan, Giuseppe Losacco, Andrea Maffetti, Enrica Sangiovanni, Giacomo Tamburini.
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.