Con questa pubblicazione inauguriamo una rubrica fatta di appunti, pensieri non ancora del tutto formalizzati, suggestioni, ipotesi di discussione a partire dagli spettacoli visti. Una forma aperta, non saggistica, un racconto per frammenti ospitato una volta alla settimana, una scrittura quasi in presa diretta per provare a testimoniare la complessità e diversità delle proposte teatrali del presente.
Chiedersi cosa spinga tornare alla tragedia classica è forse un po’ come chiedersi perché facciamo o andiamo a teatro, ma è in tempi come questi, dove il mondo come lo conosciamo sembra sul punto di sfaldarsi anche repentinamente, che si torna collettivamente a interrogare le origini. Allora la tragedia classica serve per guardare dalla massima distanza le relazioni umane e sociali, oggi scandagliate nel tempo reale delle serie tv, dei podcast, delle inchieste, un perenne live broadcasting sui rapporti. La tragedia impone un confronto con un’idea di collettività, anche solo per constatarne l’assenza; se pensiamo alle forme del teatro, la voce della tragedia potrebbe permettere di scartare un torbido della psiche oggi spesso sussunto dall’intrattenimento e spostare il discorso sulla densità di un paradigma che riguarda la polis, l’agire collettivo; eppure allo stesso tempo la tragedia rivolta il terreno delle scelte individuali, dunque la sua memoria collettiva indica sempre una tensione fra orizzonti personali e scelte politiche.
Baccanti di Archivio Zeta sono andate in scena Bologna, a Villa Aldini, location neoclassicheggiante del pasoliniano Salò, ora al centro di un processo di riqualificazione che porterà il gruppo bolognese a ripensarne gli usi per finalità di studio, residenza artistica, spettacolo. Già dallo scorso anno gli spazi della Villa e boschi attorno sono stati teatro del bel progetto Inosservanza, che in estate ospita spettacoli, presentazioni, proposte per bambini e ragazzi, momenti conviviali. Come di consueto nella poetica di Archivio Zeta, il testo è occasione di riflessione e discussione peripatetica, camminando incontriamo i personaggi: Dioniso è interpretato da una donna e da un uomo che parlano alternandosi, ci accolgono con il coro in un tempietto/cappella dedicato alla Madonna del Monte dove il Dio, accusato di impostura, sfida Penteo e Tebe; nel grande prato di fronte alla villa avviene il dialogo fra Cadmo e Tiresia, due tarantolati attraversati dal culto bacchico, e qui la recitazione altera di Gianluca Guidotti si abbandona allo spasso di un motivetto popolare (e tiko tiko tì, e tiko tiko tà!), raffigurazione umana e spaesante di un dionisismo che comunque incute timore. Arriva Dioniso e viene imprigionato dietro un portale della villa, ma le catene facilmente si spezzano. Ora tutti scendiamo, incamminandoci nella parte del bosco sotto l’edificio, in colline che digradano verso la città. Il buio incipiente ci impone di sistemarci in un teatro a gradoni di terra, scavato in un declivio, sul fondo alberi obliqui sono una skenè naturale. Ecco il racconto della fine di Penteo, sbranato dalle baccanti, a narrare è la stessa attrice che interpretava il sovrano e che ora si cala nei panni della madre Agave. L’umido dell’erba risale dalla terra ed è impossibile non pensare a una natura che accoglie, risolve e distrugge (l’alluvione in Romagna è accaduto poche settimane prima). Cosa accade a chi la sfida? Cosa fanno uomini e donne quando l’ascoltano e l’assecondano?
Al Teatro Fontana di Milano Gianluigi Gherzi ha portato in scena Edipo a Colono. C’è qualcosa di ineffabile, nel modo di recitare di Gherzi, nella sua presenza, nella dolcezza dei tratti somatici quando ti racconta qualcosa e sorride. Edipo, cieco, dopo che la sua tragedia si è consumata, torna a Colono, paese natale di Sofocle, accompagnato da Antigone. Prima è scacciato, poi è accolto e protetto grazie all’intercessione del sovrano di Atene. Edipo viene visitato dai contendenti a Tebe, dove Eteocle e Polinice si fronteggiano, con anche Creonte pronto a intervenire per farlo tornare in patria. Ma Edipo rifiuta. È tutto un continuo andare e venire fra attori e personaggi, con Gherzi che narra le vicende nelle vesti del coro ma anche di se stesso, “facendo” un regista che interrompe gli attori che così escono dai personaggi, Stefano Braschi-Edipo e Antigone-Maria Laura Palmeri. Trattasi di un semplice ed efficace stratagemma drammaturgico che intreccia il filo drammatico dei personaggi con il qui ed ora del racconto, permettendo allo spettacolo di procedere dentro e fuori la fabula mitica, usando fonti diverse per ricostruire la vicenda di Edipo e di Antigone. «Questa la facciamo», dice Gherzi, tracciando i contorni del terreno narrativo che introduce la corrispondenza autobiografica fra l’Edipo vecchio e Sofocle: anch’egli anziano e originario di Colono, come il suo personaggio, torna nel paese di origine da straniero e da supplice. L’Edipo alla prova di Gherzi si avvale di magnitudini di presenza fra loro distanti, si passa da un monologare quasi rappato che sembra ispirato a Kae Tempest a un colloquiare neoepico con il regista che sale e scende le scale della sala, commenta da un microfono al lato, ricompare dal fondo nei panni di Tiresia. Edipo è come noi, vien detto: in una società come la nostra di padri accecati che non si assumono il loro ruolo, anche noi abbiamo vissuto “la peste” di una pandemia e di altre catastrofi di origine antropica, anche noi aneliamo a una naturalità che invece abbiamo imbrigliato a tal punto da averla resa pericolosa. Eppure Edipo, arrivato a Colono, è nel bosco, nella natura che trova il suo riposo. Così Gherzi ci congeda raccontando di Amitav Gosh, in cammino alla Basilica della Salute, in cerca di risposte di fronte al mistero della pestilenza e della morte. Gli zigomi di Gherzi si stringono, forse pensando all’ineffabile che spinge gli umani a erigere le basiliche dopo che la sofferenza si è arrestata.
È un campo di tensioni, quello che si respira sulla scena di Lemnos di Giorgina Pi. I personaggi abitano il palco con la consistenza drammatica di accadimenti già avvenuti ma sostenendo anche il racconto nel presente, senza apparenti mediazioni rappresentative. Hanno qualcosa di magnetico, gli attori e le attrici diretti da Giorgina, una peculiare “sfrontatezza”, cioè un modo sfuggente, un incedere anfibio che oscilla fra frontman e frontwomen di una band e l’incurvatura della colonna vertebrale dell’introspezione recitativa. Il coro è interpretato da un’attrice greca, parla nella sua lingua da dietro a microfoni da podcasting, raccordando e spiegando le vicende del Filottete Sofocleo, personaggio abbandonato a Lemnos da Ulisse perché inefficace nella guerra di Troia, colpito da una piaga purulenta; un’altra donna impersona l’arciere, il suo ritorno sul campo farebbe volgere la guerra a favore dei Greci. In un angolo della scena sta anche Ulisse, in divisa militare da colonnello greco; si aggira con movenze morbide, quasi gassose il Neottolemo di Gabriele Portoghese, incaricato di ingannare Filotette per convincerlo a tornare. Su un pianoforte sul lato è appoggiata una bandiera comunista greca, un videofondale rimanda l’ambientazione isolana, le coste bruciate dal vento e il porto dell’alba delle partenze, con tragici echi alla strettissima contemporaneità. Ma che isola è, quella che vediamo? Il coro incalza il dialogo dei due personaggi, si affaccia anche Eracle, anch’essa interpretata da una donna. Gradualmente l’isola del mito diventa l’isola della storia, la Makronisos dove gli oppositori politici vennero confinati e imprigionati durante la dittatura dei colonnelli. Lo spettacolo, appresa questa informazione, almeno nella mia percezione cambia di segno, le voci sul palco ora ricostruiscono la storia greca del secondo Novecento con la guerra civile, le torture, la segregazione. Cade il telo su cui si proiettavano le immagini e resta una fila di fari in controluce, siamo accecati per qualche istante. Nel rievocare una specie di Marat/Sade greco apprendiamo che in quell’isola stavano anche artisti e attori, o poeti come Ghiannis Ritsos: entrare nei panni degli altri, giocare, fingere era un modo per vivere e sopravvivere. Tornano in mente storie sul teatro come luogo di conoscenza e resistenza durante altre dittature, pensiamo alla funzione “curativa” del racconto, quando permette di dare la parola alle persone e alle storie nascoste nei traumi. Dentro Lemnos scorre qualcosa di tutto questo, è un teatro politico che “usa” la tragedia classica come terreno in cui trovarci per discutere, una ritualità da “eseguire” perché permette di aprire un canale su un presente sconosciuto. In video compare di nuovo Makronisos, vediamo i gradoni di un teatro, sul fondo sta un edificio con di fronte un albero, una scenografia che uomo e natura han reso fissa: è qui che i confinati facevano teatro, ci dicono. Immaginiamoceli oggi, nelle nostra quotidiana fatica a pensare ad azioni collettive. È quanto ci chiede di fare Lemnos, citando Ritsos: torniamo a immaginare il futuro, scrivendo dieci righe per chi verrà dopo di noi. Gli attori e le attrici vengono in platea e ci consegnano una cartolina con l’immagine del teatro sull’isola, per scrivere.
Un campo di forze che permette di discutere è la tragedia. Uno specchio che rimanda immagini da così lontano che le sue rifrazioni nel presente ci forzano a prendere una posizione e a conoscere. Facciamo allora i conti con l’ambivalenza di una natura che protegge e accoglie, come quella di Edipo alla fine dei suoi giorni, e che allo stesso tempo sovrasta e annichilisce ricordandoci la nostra arroganza, come nella terribile estasi di comunione col Dio raccontata nella collina digradante delle Baccanti. Che farne, oggi, di questa natura sublime, di questa potenza liberatrice che viene a spostare i nostri quotidiani orizzonti? Le tracce della peste sono ancora ben presenti, camminando nelle città nuovamente brulicanti, osservando gli orizzonti da una splendida isola-prigione.
Gli spettacoli
Baccanti di Euripide drammaturgia e regia Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni con Diana Dardi (Penteo, Agave), Gianluca Guidotti (Cadmo), Pouria Jashn Tirgan (Dioniso), Giuseppe Losacco (Coro, Guardia, Messaggero) Andrea Maffetti (Coro, Tiresia, Messaggero) Enrica Sangiovanni (Dioniso) Giacomo Tamburini (Coro, Messaggero, duduk); partitura musicale Patrizio Barontini movimenti scenici Giuditta de Concini; teatro nel bosco a cura di Francesca Zanardi realizzato con Valentino Casula e Germano Zagni; sartoria les libellules Studio; conflagrazioni poetiche Ovidio, Roberto Calasso, Giorgio Ieranò, Paolo Pecere; organizzazione Greta Burchianti, Enrica Serrani, Marta Zaramella; foto di scena Franco Guardascione; grafica nonsinaviga; produzione archiviozeta 2023
Edipo a Colono di Gigi Gherzi da Sofocle; con Stefano Braschi, Gigi Gherzi, Maria Laura Palmeri; regia Gigi Gherzi; scene Federico Biancalani; disegno luci Ivan Dimitri Pilogallo; video Nadia Baldi
Produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale
Lemnos ispirato al mito di Filottete; drammaturgia Giorgina Pi con Bluemotion; regia, video e scene Giorgina Pi; dramaturg Massimo Fusillo; con Gaia Insenga (Filottete), Paolo Musio (Ulisse), Aurora Peres (Deus Ex), Gabriele Portoghese (Neottolemo), Alexia Sarantopoulou (Il Coro); ambiente sonoro Collettivo Angelo Mai; arrangiamenti e cura del suono Cristiano De Fabritiis, Valerio Vigliar; costumi Sandra Cardini; luci Andrea Gallo; colorist Alessio Morglia; produzione Teatro Nazionale di Genova / ERT / TPE in collaborazione con Bluemotion e Angelo Mai
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.