«Come già dovreste sapere una sedia è già teatro, ma due tornano a esser niente»
Vassili Claudienko
Avanti oltre la porta c’è un teatro giocato al buio. Si passa attraverso un frastuono, un insieme di rumori, di sirene stradali, il fruscio di un vento gonfio, e poi nel silenzio si fanno i pochi passi necessari a raggiungere il proprio posto. Ed ecco che siamo entrati. I sotterrani del Teatro Magnolfi di Prato si aprono al pubblico del Festival Contemporanea, con poche sedute predisposte per la visione.
Sul fondo semibuio ci aspetta Claudio Morganti, la luce è sufficiente per averlo a riferimento di questo breve cammino, scegliamo la nostra sedia e intanto ascoltiamo l’attore che ci accoglie. Da qui in avanti il ritmo è un instancabile procedere verso ulteriori ingressi: l’opera cambia di continuo e sembra dare a ogni giusto attimo il valore di un nuovo inizio. Siamo al centro di Mit Lenz, un lavoro che considera lo spazio della visione come una palestra, nella quale spettatori e attori sono tenuti a sudare, muovendosi di continuo, e a provare nuovi attrezzi ad ogni cambio di luce, per testare al meglio le qualità che gli atleti-attori ci propongono.
Sulla scena – un quadro curvo di sassi e libri, piccole fonti di luce e pochi oggetti dalle forme semplici – sono Antonio Perrone e Claudio Morganti a tenere in vita la storia di Jakob Michael Reinhold Lenz, poeta tedesco il cui peregrinare attraverso le valli del sud della Germania è stato illustrato da George Büchner in un racconto che reca a titolo il solo cognome, Lenz. Tra i due autori, Büchner e Morganti, esiste una relazione che da diversi anni attraversa il teatro, e si è manifestata in letture e spettacoli, e che in particolare ha trovato nel Woyzeck un incendio di connessioni; da allora Morganti sembra essersi immerso in una ricerca nella quale è sempre più difficile distinguere la pratica dalla teoria, ovvero il fare teatro dal vedere il teatro, e il lavoro compiuto sulla scena è un continuo manifestare l’arte dell’attore e la visione che l’attore stesso ha del teatro, di quell’istante scenico, di quello sguardo che lo spettatore gli rivolge. Complice drammaturgica in questo tragitto è Rita Frongia, che anche in Mit Lenz sa farsi presenza dalla sua piccola e adombrata regia, costruendo dalla sua postazione il terzo vertice di un serrato triangolo.
Tra il lungo cammino nel Woyzeck e il nuovo abbraccio con Lenz, esiste un libro che fa dello sdoppiamento una chiave felice di scrittura: nella rigorosa schizofrenia di un autore che si frantuma in maestro e discepolo, archeologo e lettore, il Serissimo metodo Morg’hantieff(Edizioni dell’Asino, Roma 2011) non è solo una sorta di manuale pensato per attori, teatranti e spettatori che davvero si staglia nell’orizzonte editoriale, ma è anche un sincero autoritratto, la descrizione anatomica del proprio occhio artistico, che si diverte, con la penna e coi disegni, a farci camminare in un mondo di idee, di esempi, di esercizi veri e falsi, depistandoci o accompagnandoci in un vero e proprio modo di pensare il teatro.
Mit Lenz è una collana di soglie, un’incessante catena di respiri, una visione che si sviluppa per diapositive, con un sonoro stacco tra un’immagine e l’altra che riaccende, ad ogni fotogramma, l’attenzione vigile dello spettatore. È uno spettacolo che chiede di dimenticare, di fare tesoro, di fermarsi, di ripartire e di avere pazienza. La prima scena è un respiro, il respiro profondo che vibra dal corpo di Perrone, che abbandona il suo ritmo normale per perdersi nello spasmo, fuori dal controllo. L’attore, che qui fa le veci del poeta Lenz, è guidato da Claudio Morganti, che invece, quando non è se stesso, assume ora il ruolo di narratore ora quello di Oberlin, guida spirituale di Lenz che lo accolse nella sua casa e che per lungo tempo lo aiutò a proteggersi dalle proprie allucinazioni.
Perrone è dunque il poeta giovane, che si muove inquieto attorno a noi e si fida solo della voce di Oberlin, con il quale per un tratto conversa, dal quale all’improvviso fugge. Ma più spesso è interprete delle sue indicazioni: Morganti talvolta si ferma, ci ferma, interrompe la visione e racconta, spiega o commenta ciò che abbiamo appena visto oppure ci anticipa, come un suggerimento, che cosa stiamo per vedere. Ed ecco ciò che annuncia appare davanti ai nostri occhi, nel corpo di Perrone o sul volto dello stesso Morganti, o nella voce di entrambi, aprendo dunque le maglie registiche che reggono e nutrono questo ritmo incostante, movimentato e però preciso, determinato.
Tutto il lavoro è un gioco di passaggi sottili o cambiamenti eclatanti, come le incursioni degli attori tra il pubblico con bicchieri di vino o con una grande ampolla di acqua di rose, e ogni volta lo spettatore ricomincia a guardare, ad ascoltare, a capire dove si trova in quel momento. Lo spettacolo ci mostra due attori disinvolti nel loro raro talento, divertiti e seri in un gioco di interpretazione scenica che sosta su un carattere tragico-romantico per riflettere sul tempo – i frammenti del presente di un’esperienza continuamente sopraffatti dalla furia di una storia – sulla luce che scolora l’ambiente per attenuare ogni scissione tra chi guarda ed è guardato, sia nel gioco d’ombre che nel pieno luminoso.
Mit Lenz è un palese atto di teatro, un tentativo di svelamento per gradi dell’arte dell’attore, un’occasione per lo spettatore di rigenerare i propri occhi osservando, attorno a sé, il dinamico manifestarsi di un racconto.
di Serena Terranova
(foto di Luca Serrani)
L'autore
-
Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.