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(foto di Chiara Ferrini)
(foto di Chiara Ferrini)

“Trilogia dell’Assedio”. Capire, cambiare e cadere, è forse questo il destino?

di Francesco Cervellino

Prima della messa in scena dell’ultimo pezzo della trilogia ci viene spiegato che, per questo capitolo, non ci saranno in scena le detenute che hanno preso parte alla creazione dello spettacolo. In un momento in cui sebbene di carceri si parli sempre poco e sempre in bolle di indignazione destinate a scoppiare troppo spesso nel nulla, Teatro dei Venti ci vuole far riflettere anche su questo tema. Da ormai vent’anni portano avanti un lavoro continuo in certe strutture, cercando sinergicamente di coordinarsi con Magistrati, permessi, direttori, burocrazie. Per cui è importante sottolineare come questa volta non si è riusciti a superare l’ostacolo, nonostante tutti gli sforzi. Ci informano che si è deciso di portare in scena Antigone solo durante la maratona, per non lasciare il lavoro monco, e di annullare le repliche singole. In questo annuncio cogliamo un senso di sconfitta, non tanto della compagnia che sicuramente con tutte le forze ha provato a portare avanti il lavoro, quanto più di un sistema che non dà alcun peso al percorso che certi detenuti anche grazie al teatro, possono fare verso il mondo. Un sistema fatto di responsabilità complesse in cui troppo spesso si piazzano ostacoli burocratici e sistemici che impediscono una vera rieducazione.

All’interno della sala il pubblico viene disposto su tre lati dello spazio scenico, sul fondo c’è una gradinata popolata da uomini immobili, mentre al centro siede Irida Gjergji, con la sua viola e una loop station. Domenica 16 febbraio 2025, al Teatro delle Passioni di Modena, sono andati in scena tutti e tre i capitoli della Trilogia dell’Assedio del Teatro dei Venti: Edipo Re, Sette contro Tebe e Antigone. Una maratona che il Teatro dei Venti mette in scena come grande progetto per i suoi vent’anni. Ad aprire la narrazione c’è l’entrata di Tiresia, interpretata da Francesca Figini – che appare con le sue mani nervose e un piede zoppo. Ci introduce nel racconto con parole criptiche, le parole del vecchio indovino cieco che seppur non vede sà. E questo dirà a Edipo quando i due si incontreranno: «Come è difficile sapere quando sapere non serve a chi sa». Edipo appare in scena, vestito con una tunica arancione, dai toni orientali, che spicca sullo sfondo quasi a lutto del coro seduto.

La narrazione prosegue con il suo incedere, proprio come il destino. Arriva Creonte, che torna dall’oracolo per comunicare il responso, che da millenni ormai è sempre lo stesso: Edipo è colpevole, responsabile della peste e marchiato dai peccati dei suoi avi. A nulla vale il luminoso intervento della regina Giocasta, interpretata da Oxana Casolari,Edipo deve sapere, anche se il sapere sarà per lui la fine. In una delle scene più memorabili Edipo si toglie le vesti regali. Ci appare di spalle, con la sua schiena piena di tatuaggi, si lega intorno agli occhi una benda insanguinata. L’attore, cieco come il personaggio allora gattona con difficoltà verso Creonte. Gli chiede l’esilio e viene accontentato.

Il passaggio al secondo atto, Sette contro Tebe, segna un netto cambio: la viola cede il posto alla batteria di Igino Caselgrandi e la messa in scena si trasforma in un turbine di azione, ritmi, canti e tensione. Il pubblico, insieme al coro, diventa il volto della Tebe assediata; Eteocle, posizionato al centro della gradinata, dirige l’azione lanciando comandi per cercare di mantenere il controllo, mentre la batteria ricrea il fragore delle pietre contro le mura della città e il coro di donne si lamenta per la paura che prova. Il ritmo porta la tensione ad aumentare ed evoca perfettamente l’imminente scontro. Poi parte la battaglia: gli attori, iniziano a spostare i praticabili posizionati davanti alla gradinata, alternano salti, capriole, in certi momenti si nascondono, in altri si inseguono, intanto un assolo di batteria evoca l’armata in attesa fuori dalle mura. A battaglia finita rimane un solo attore che come un muezzin all’alba canta quello che è accaduto nella battaglia. Quando torna la luce, Eteocle giace disteso a terra, morto eroicamente per difendere la sua città. Un uomo allora si alza dalla tribuna, lo guarda. Capiamo che è suo fratello, Polinice. Si stende su di lui, lentamente, quasi a volersi addormentare insieme a suo fratello, poi, appaiono Antigone e Ismene che ci danno un assaggio di quel che presto accadrà.

(immagine di Chiara Ferrin)

Con l’inizio dell’ultimo atto, Antigone, la musica cambia ancora, passando dalla batteria alla chitarra elettrica di Tonino la Distruzione: Creonte, interpretato da Davide Filippi, si presenta come un personaggio iroso, carico delle responsabilità che Tebe gli ha sempre attribuito, emergendo con un assolo rock deciso nel tentativo di ristabilire l’ordine in una successione di eventi rapida e frenetica. Creonte domina la scena, non riesce a gestire quello che gli accade intorno, dà un ordine ma questo primo ordine che dà viene subito sfidato da Antigone. Da sottolineare la prova di una giovanissima Ismene, che nella sua innocenza, chiede ad Antigone di restare con lei, spaventata da tutta la morte che circonda la sua famiglia. Sappiamo tutti come va a finire questa storia, e non ci sono sorprese, né finali alternativi. Alla fine, a chiudere il cerchio, appare come era stato all’inizio, Tiresia, il personaggio che da millenni rivede questa vicenda. Lui/lei, che tutto vede, vede le storie che si ripetono, vede il ciclico ripetersi degli eventi essendone distaccato e da buon indovino, con parole sibilline ci avverte e allo stesso tempo ci chiede di riempire il vuoto di immaginazione che le sue parole evocano. «Capiamo, cambiamo, ma cadiamo» è l’ultima cosa che ci dice.

La regia di Stefano Tè si esprime in movimenti misurati, spazi accuratamente modellati dalla luce e un susseguirsi di colonne sonore costruite su diversi strumenti, che fungono sia da protagonista che da sottofondo costante. In tutta la trilogia la musica domina e accompagna la scena, mentre elementi ricorrenti – come i costumi curati da Nuvia Valestri e la posizione fissa del coro, specchio del pubblico – assicurano continuità pur nella variazione degli strumenti e del ritmo. Quando le luci si accendono e la sala si svuota, è come essere passati sotto un rito collettivo. Gli attori sono stanchi, il pubblico è stanco, ma di quella stanchezza soddisfatta che si crea alla fine di un percorso, al raggiungimento di una meta. Alla fine di tutto lo spettacolo ci ha lasciato con molte domande, domande che si sovrappongono alla realtà.

Edipo come molti, è condannato alla nascita. Edipo anche se innocente, nasce in un contesto che ha già deciso per lui. Ci viene da chiederci quanto di questo possa ricollegarsi alle vite di certi detenuti, e quanto invece è possibile per ognuno di noi scriversi il proprio destino. Quello che però ci portiamo via dal Teatro delle Passioni, oltre a tutte queste domande, è quello che succede dopo. Nel foyer viene allestita una lunga tavolata. Qualcuno tira fuori un tamburello, qualcun altro inizia a cantare. Arriva la pizza accolta da un’ovazione. Seduti lungo il tavolo ci sono spettatori, attori, musicisti, tutti riuniti per mangiare assieme, parlare, senza etichette, senza differenze, senza che il destino in quel momento possa far sentire la sua presa. È forse anche qui il valore del lavoro del Teatro dei Venti: Creare uno spettacolo chiamandolo “Trilogia dell’Assedio” che come risultato finale ha quello di riuscire a rimuovere dal pensiero, seppure per poco, l’assedio del destino.

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