Un jukebox impazzito, una radio delirante che non riesce a trovare la sua stazione. Marco D’Agostin, indossando una camicia con pappagalli colorati, si posiziona davanti al pubblico e canta filastrocche in inglese, hit commerciali, parla in spagnolo e cita annunci televisivi. Everything is ok è il nuovo lavoro del giovane coreografo, visto al DID Studio all’interno del Danae Festival a Milano.
Il danzatore, che qui dimostra anche di saper cantare, dopo una formazione con coreografi di fama internazionale (Yasmeen Godder, Emio Greco, Sharon Friedman) e un percorso da interprete per Alessandro Sciarroni, William Collins e altri, prosegue la propria ricerca inaugurata con viola (vincitore del Premio Gd’A Veneto 2010), passando per Spic & Span(Segnalazione Speciale Premio Scenario 2011) e per l’ultimo per non svegliare i draghi addormentati (vincitore Premio Prospettiva Danza 2012).
Tra un Meneito e Staying Alive il corpo del performer si lancia in danze diverse, trasformandosi. Sembra di stare in un programma televisivo, di fronte a una tv impazzita sottoposta a uno zapping velocissimo. Più che evocare immagini, il danzatore ricrea il ritmo confusionario del quotidiano, l’invasamento prodotto dalle feste, dalla pubblicità, dalla voglia di evadere dalla monotonia. D’Agostin non si risparmia: la danza contemporanea si contamina con l’aerobica, con i balli latino americani o da “febbre del sabato sera”. Il danzatore imita le reginette dei videoclip e a tratti le movenze effeminate ricordano Beyoncé o Madonna, per poi trasformarsi e assomigliare a Ricky Martin o John Travolta. Il suo è un corpo cangiante e polimorfo che costringe lo spettatore a fare delle scelte, a creare un proprio sguardo, stimolato da una pioggia frenetica, interminabile e inarrestabile di immagini decontestualizzate e apparentemente slegate tra loro. Il danzatore incarna citazioni che riportano alla luce le tipiche “spaccate” della danza di intrattenimento degli anni ’80 o fanno canticchiare nella testa le Cicale di Heather Parisi. Si aggiungono i suoi elettronici di LSKA, che danno la sensazione di stare in una bolla in cui siamo isolati dal chiasso mediatico, dal frastuono esterno, in un paesaggio sonoro che gradualmente prende forma.
Inaspettatamente il danzatore si ferma e si accascia al pavimento, si alza lentamente e si piega quasi a voler toccare qualcosa, si risiede e porta le dita sulla testa guardandosi intorno forse frastornato, poi esce tra le note di un piano mentre luci blu e rosa si illuminano a intermittenza. Everything is ok è un boomerang di stimoli che a un certo punto si ferma, crolla e si riposa, così come fa ora il pubblico che sin dall’inizio si è lasciato sopraffare da un corpo fantasmagorico e dall’iconografia quotidiana. D’Agostin è in grado di estenuare la vista ma anche di ipnotizzare riuscendo, così, a farci sprofondare tra le reminiscenze e tra le corde della nostra immaginazione.
Diverso è lo spettacolo di Francesco Marilungo, Paradise, presentato al Danae subito dopo D’Agostin. Formatosi nel corso di Teatrodanza della Civica Scuola Paolo Grassi di Milano e confrontatosi con danzatori e coreografi rinomati (Lisa Kraus, Elena Demyanenko, Julie Anne Stanzak e altri), è interprete stabile nella Compagnia Enzo Cosimi dal 2012 e contemporaneamente inizia un percorso autoriale che unisce performing art, danza e arti visive. Da ingegnere ad artista, Marilungo comincia il suo viaggio personale nella danza con l’assolo Emily (primo premio al Concorso Internazionale di Danza Out d’autore Salicedoro e Premio Armunia) e successivamente con Siegfried.
Paradise si apre con Marilungo e il performer Francesco Napoli che camminano verso il centro della scena, qui circoscritto da un quadrato di nastro adesivo, mentre sullo sfondo vengono proiettate le immagini invecchiate e sgranate del discusso e blasfemo film Paradise: Faith di Ulrich Siedl. Vediamo sullo schermo una donna che prega davanti a un crocifisso, Marilungo si stende sul pavimento, sembra un fantoccio senza vita, e Napoli gli pulisce il corpo. Inizia il rito sadomaso: Marilungo entra in un “letto sottovuoto” e appare come una scultura soffocata dal lattice, si contorce sul palco, tenta di respirare, la sua cassa toracica è affannata e il suo fiato è asmatico, ansimante. E mentre Napoli riprende morbosamente con una telecamera alcuni dettagli, vediamo un corpo preso di paura che teneramente si accartoccia in posizione fetale e che si inarca quando è percosso dal piacevole dolore claustrofobico del masochismo.
La scultura vivente viene toccata con forza, trascinata, abbandonata, sovrastata. I due corpi si aggrovigliano, si abbracciano violentemente. Comincia il visibilio carnale, l’esaltazione erotica, il masochismo paradisiaco, l’amore pornografico. Ora sono in piedi, le luci sono basse, le loro ombre sono ingigantite sullo schermo, e tra queste due sagome torna una donna sofferente che si frusta, si autoflagella fino a piangere disperatamente.
Mentre sul palco c’è il masochismo senza pregiudizi, nelle immagini del film ci sono la frustrazione e il senso di colpa causati dalla religione. Il nostro quotidiano sembra poter essere un quieto vivere in cui ci costringiamo a seguire dei ruoli, ci atteniamo a una morale e a un’etica, a volte celando quello che siamo realmente. Paradise spia nell’intimità dell’uomo contemporaneo, quasi a voler dire che tutti nascondiamo i nostri desideri, le nostre perversioni, e che ognuno di noi costruisce separatamente il proprio mondo, un “paradiso” in cui essere se stessi e in cui scoprirsi.
di Alessandra Corsini
foto di Alice Brazzit
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.