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Un corpo di donna prono, solo, sul palcoscenico.

The Garden: una danza immobile evocatrice di fantasmi

di Altre Velocità

Nel 1917 Lev Vladimirovič Kulešov con i suoi esperimenti esplorava le potenzialità del montaggio
cinematografico scoprendo che allo spettatore bastava osservare due immagini in sequenza per metterle in relazione. The Garden fa qualcosa di simile ma distruggendo quella lontananza tra schermo e spettatore e mettendo in gioco lo spazio vuoto. Sul palco del teatro di San Giovanni in Persiceto appare un corpo steso a terra, un corpo dai connotati femminili, prono. Il volto coperto da una chioma di riccioli biondi, le braccia lungo i fianchi.

Il pubblico viene distribuito sui palchetti, la platea rimane vuota. Parte una traccia, una musica che sembra uscita da un film degli anni ’50 di Hitchcock, una lunga introduzione musicale. Sembrano quasi scorrere i titoli di un film, la musica vive di picchi improvvisi, verticalismi e ricadute, una musica inquieta, una musica fatta per essere uccisi ci dice a un certo punto la voce stessa del celebre regista. Il corpo in scena non si è mosso di un millimetro. La traccia termina e lascia spazio ad una musica elettronica, vicina a momenti, ovattata in altri, come lo sfondo sonoro di una serata techno non troppo distante. Il corpo è ancora lì.

Pian piano il gioco messo in scena da Gaetano Palermo inizia a farsi comprendere. La traccia elettronica lascia spazio ad altre impressioni vocali, si sente il banditore di un’asta, grida e rumori di una guerriglia, ma il corpo in scena non si muove mai. Lo spazio vuoto invece si riempie di impressioni, immagini, il nostro cervello cerca inevitabilmente connessioni tra quello che vede e quello che sente.

L’autore di tutto quello che accade in The Garden è l’immaginario dello spettatore. La performance dà allo spettatore solo gli ingredienti di un possibile impasto, fornisce farina e acqua, ma sta ben lontano dal
mescolarli, lascia allo spettatore il compito di immaginarsi il pane. Il tutto sfidando qualsiasi categoria nel
quale si voglia rinchiudere ciò che abbiamo visto. È danza? Se lo è, lo è sfidando il concetto di danza con un totale immobilismo. È teatro? È una performance? Interessa poco categorizzare un’opera del genere.
Sarebbe come farlo con gli infiniti immaginari costruiti dai suoi spettatori.

La drammaturgia sonora messa in campo sorprende, a volte riempie la platea, alle volte la svuota. Crea corpi vicini e lontani, fantasmi che appaiono e scompaiono senza che nulla veramente accada. Eppure, quella presenza, quel corpo inevitabilmente presente, c’è, entra e domina ogni immagine, ogni fantasia. Crea assonanze, dissonanze, prossimità e distanza, un’orchestra di immaginari.

Nella sua semplicità, The Garden si spinge a evocare interrogativi sulla natura stessa della danza, del teatro, del cinema, del montaggio. In definitiva un esperimento, ma anche un gioco di impressioni che fiorisce sia per efficacia che per ricerca.

Articolo scritto da Francesco Cervellino per Speciale Gender Bender 2024

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