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Il teatro, la merda e il corpo come un assoluto

di Francesco Brusa

Distorto, amplificato, elettrico: in Star Spangled Banner, forse per la prima volta, il suono ripercorre l’immaterialità del simbolo. Con la sua performance a Woodstock nel 1969, Jimi Hendrix – rockstar emblema delle rockstar, sciamano e alchimista – andava a parodiare l’inno americano, o meglio a dissezionarlo, dilaniarlo fino alla trasfigurazione grottesca. Le note sembrano gridi acuti, le modulazioni un lungo, disperato, gesto di rabbia e ribellione, mentre l’estate dell’amore – anche attraverso questo momento – arriva a coincidere con il suo contenuto più direttamente politico: la contestazione della guerra del Vietnam, il rifiuto del militarismo, la critica al concetto di “patria” e ai sacrifici compiuti in suo nome (le distorsioni della chitarra di Hendrix sono state subito lette come un richiamo al suono degli aerei da guerra e delle bombe sganciate). Più di quarant’anni dopo, nella provincia del sogno americano, alla fine dello spettacolo scritto da Cristian Ceresoli e interpretato da Silvia Gallerano La merda assistiamo a qualcosa di simile. L’attrice, in piedi e avvolta nel tricolore dopo che per tutta la durata della performance ci ha posto di fronte alla sua nudità integrale, intona con fare al limite fra il remissivo e il denigratorio: «Fra-tee-lli d’I-taa-lia»… due medesimi impeti di denuncia contro lo Stato e la società, sebbene raggiunti per vie opposte. Eppure, se nel caso di Jimi Hendrix con Star Spangled Banner, grazie anche al portato – per così dire – “superomistico” insito nell’attitudine rock, ci trovavamo davanti a un individuo (e, attraverso di lui, alla voce di un’intera generazione) che ridicolizzava la nazione, con La merda osserviamo invece il logorante lavorio del potere che schiaccia, mastica, digerisce e poi risputa l’individuo ormai ridotto a brandelli, ombra di se stesso.

Pluripremiato, acclamato all’estero e da oltre otto anni sui palchi italiani, il lavoro di Cristian Ceresoli affonda la propria ispirazione in un periodo molto specifico della nostra storia, mai dichiarato esplicitamente ma a cui si allude in continuazione durante lo spettacolo: il cosiddetto “ventennio berlusconiano”, ovvero il trionfo del format televisivo come forma mentis, l’inseguimento del successo e della celebrità come uniche (e massime) possibilità di convivenza. Il testo (che nella sua pubblicazione con la casa editrice Gallucci viene definito, non a torto, “partitura”) è infatti il torrenziale e tormentato flusso di coscienza di una ragazza (Silvia Gallerano, sola in scena) che vuole a tutti i costi fare carriera per il piccolo schermo. E se, in qualche modo, la protagonista riesce ad avere ragione del suo sogno, la strada che la porta all’autorealizzazione possiede i tratti dell’incubo allucinato, di una sofferta discesa verso ciò che vi è di più urticante e innominabile. Tre “tempi”, come tre nette scansioni dell’andamento dello spettacolo, dividono questa sottile e moderna catabasi: “Le cosce”, in cui l’ossessione per il proprio corpo e per quelli che vengono considerati (dai più?) difetti fisici assume i contorni di un sentimento totale e totalizzante; “Il cazzo”, dove si racconta – con scene anche di una certa ambigua morbosità – del sesso come coercizione e “addestramento” alla sottomissione (femminile); infine “La fama”, che è però ormai una condizione triste e annichilente, consolatoria al limite del risentimento.
È interessante notare quanto, soprattutto all’estero, La merda sia stato visto come un’invettiva dal forte carattere civile, un invito quasi alla resistenza morale contro l’abbruttimento delle relazioni («uno stimolo a liberare il nostro paese», L’Unità; «…il coraggio cercato nel pubblico è quello di opporsi alla corruzione del sistema politico italiano», The Stage; «…l’attuale condizione delle giovani donne, in Italia e in tutto l’Occidente», The Scotsman). Niente di più azzeccato: lo spettacolo è costruito come una vera e propria satira dei costumi dove, attraverso gli iperbolici registri del grottesco, l’intento è appunto rilevare vizi e bassezze di un’intera società. Il flusso di coscienza è, innanzitutto, flusso della falsa coscienza: è come se la protagonista – che assurge a paradigma di tutta la popolazione – sentisse perfettamente il degrado civico, morale, relazione di cui è partecipe ma non facesse altro che negarlo a se stessa. Di più, quasi che la profondità di una tale rimozione fosse infine l’unico e il più alto marchio del successo (che, sembra dirci il testo, consiste dunque nell’abituarsi a soprusi e prevaricazioni di varia natura: «…si può dire che è lì che ho imparato a fare quello che serve in certe occasioni, che se una cosa ti fa schifo, tu, ti puoi abituare»). Produci (disponibilità totale), Consuma (falsi immaginari), Crepa (a livello di amor proprio)…
Il personaggio di Silvia Gallerano pare davvero ingannarsi su tutto: dalla relazione con il padre, di cui all’inizio dello spettacolo viene in qualche modo decantato il coraggio per essersi spinto al suicidio ma la cui assenza certo costituisce un vuoto incolmabile, al rapporto con il fidanzato, che per «volerle bene, le vuole bene» ma poi la costringe spesso ad agire contro la sua volontà, fino ovviamente alla fiducia nella carriera televisiva la quale, invece di condurla a una piena autorealizzazione, sembra più amplificare il carattere ossessivo e distruttivo dei suoi comportamenti. Esagerato senza risultare inverosimile, destrutturato nella forma eppure con una coerenza di senso inespugnabile, il monologo di Ceresoli vuole essere – in tutto e per tutto – una contro-biografia di una nazione: sia quella cinica e amorale che ha ceduto alle lusinghe berlusconiane, ma anche quella dei “buoni” che di lì a poco avrebbe preteso di “liberarci” con un progetto che tanto aveva di civico e giustizialista ma quasi nulla di politico in senso proprio (si allude qui al grillismo, ed è lo stesso autore dello spettacolo a suggerire in un’intervista un filo diretto fra la protagonista e la figura del comico-leader genovese).

Rivedendo La merda oggi, quando queste due tensioni in seno alla nostra società sembrano o definitivamente tramontate o comunque cambiate di segno, si sarebbe tentati di metterne in luce le capacità premonitrici, di cercare corrispondenze con altre e successive dinamiche. A partire proprio dal tricolore finale: chi l’avrebbe detto che ci saremmo ritrovati oggi a parlare di “sovranismo” o a fare nuovamente i conti, nel dibattito pubblico, col richiamo alla patria nella sua supposta purezza etnica, religiosa? In questo senso, la chiusura dello spettacolo rappresenta sì un atto di accusa verso la corruzione politica e morale ma anche un monito nei confronti della faciloneria girotondina e “pseudo-garibaldina” con cui a volte si è cercato un riscatto attraverso simboli inclusivi ma ambigui (la Costituzione, i “cittadini”, i libri come sinonimo generico di una altrettanto generica Cultura…). Siamo bene lontani dalle suggestioni del Dario Fo di Morte accidentale di un anarchico (che pure risuona come influenza nella performance), per cui «è solo quando saremo nella merda fino al collo che potremo girare a testa alta». La fierezza abbozzata da Silvia Gallerano è già grottesca, il tricolore è metaforicamente imbevuto di escrementi e avvolgervici dentro ha il solo effetto di sporcarsi ancora di più.
Ma c’è anche tutta una serie di questioni più specifiche, la cui centralità è espressa come “in potenza” nello spettacolo e che oggi non possiamo forse fare a meno di osservare sotto una diversa luce. È difficile infatti non mettere i relazione i soprusi, le micro-aggressioni quando non proprio i ricatti a sfondo sessuale evocati dal monologo con la recente ondata di denunce del movimento statunitense (e in piccola parte italiano) del #MeToo, tanto più che si tratta di denunce relative al contesto dello showbiz. Inoltre, il problema del potere maschile – o meglio della mascolinità del potere – è esplicitamente chiamato in causa dal testo: oltre al fatto che il secondo tempo della narrazione si intitola “Il cazzo” (nel tentativo di calare la pervasività simbolica del Fallo dentro una concretezza episodico-biografica), nel suo delirio al tempo stesso autocommiserativo e megalomane la protagonista si dice pronta a fare del «sesso maschile la nostra bandiera». Impossibile non scorgere richiami con la messa in discussione del patriarcato avvenuta in vari contesti negli ultimi anni e, specificamente in Italia, con la nascita di Non Una di Meno che rappresenta probabilmente il movimento politico dal basso più significativo dell’ultimo decennio. Ricordiamo la cronologia: l’ultimo governo Berlusconi viene sostituito dal governo tecnico di Monti nel 2011, mentre l’anno successivo lo spettacolo La merda viene messo in scena per la prima volta; nel 2013 il Movimento 5 Stelle di Grillo ha un inatteso exploit alle elezioni diventando quasi il maggiore partito italiano, in una fase storica in cui si inizia sempre più insistentemente a parlare di “populismo” e “post-verità”, fenomeni la cui massima espressione per molti avrà luogo con l’ascesa di Donald Trump al ruolo di presidente degli Stati Uniti nel 2016; l’anno seguente, proprio in contesto statunitense, inizia ad avere una grande diffusione l’hashtag #MeToo mentre a marzo viene indetto il primo “Sciopero mondiale delle donne” che segna, appunto, l’affermarsi anche nel nostro paese del movimento femminista Non Una di Meno. Si ha come l’impressione che la performance di Ceresoli e Gallerano unisca in un unico, tagliente, “grumo di percezioni” tutti questi puntini, andando ad anticipare alcune tematiche e tendenze mentre procedeva a cicatrizzarne altre.

Tuttavia, La merda non presenta riferimenti politici diretti. Si muove completamente dentro lo “spazio di coscienza” della protagonista alludendo però al contesto di un’eterna periferia che eternamente guarda a un centro sempre più invisibile ed etereo, fra il catodico e il virtuale, come unica forma di riscatto. Qualcosa di impersonale, rarefatto e vagamente allucinato che ricorda le atmosfere di disgregazione geografico-sensoriale dei primi capitoli di Assalto a un tempo devastato e vile di Giuseppe Genna. Uno degli elementi più direttamente politici della performance sta appunto in questa sospensione spazio-percettiva, che – attraverso la sua asfittica astrattezza – diventa già segno di una condanna, dell’impossibilità di vivere il presente perché uno dei principali effetti della (ideologia della) televisione è proprio quello di relegare il (o l’idea del) futuro nella simultaneità: «Del nostro tempo rubato», cantava qualcuno all’incirca negli stessi anni… Ma, a tal proposito, è come se non avessimo mai davvero accesso alle profondità del personaggio interpretato da Silvia Gallerano. Non c’è cioè, e sebbene la realtà biografico-esistenziale della protagonista ci venga raccontata con dovizia e concretezza di particolari, alcuno scavo psicologico né alcuno svelamento dell’inconscio. Le vicende, anche quelle maggiormente perturbanti e problematiche, procedono senza mostrare in fondo i suoi desideri più intimi, le aspirazioni più genuine, senza dare contezza del suo “posizionamento morale” rispetto agli eventi. Certo, la protagonista sembra avere come unico orizzonte il “successo” (televisivo). Ma tutti i fatti e tutti i suoi sforzi sono filtrati da un’etica postmoderna del sacrificio («È proprio vero che ci vuol del coraggio. E della gran misericordia. Bisogna dare tutta se stessa per farcela. Sempre») che non consente rielaborazione possibile se non sotto il segno della nevrosi, di una bulimia isterica e implacabile. I tratti del personaggio che Silvia Gallerano lascia trasparire non rimandano in alcun modo all’arrivismo o a una qualche ansia di riscatto sociale. Al contrario, è più come se la voglia di apparire, di “farsi da sola”, fosse semplicemente il solo metro esistenziale a sua disposizione. Un assunto, una sorta di dato di fatto, che anche noi spettatori siamo chiamati a registrare senza porci ulteriori domande.

Similmente, come si trattasse di un’auto-evidenza drammaturgica, siamo posti sin dal primo momento dello spettacolo di fronte alla nudità integrale dell’attrice. Seduta su un alto sgabello e illuminata prepotentemente, senza alcun vestito addosso, così rimarrà per tutto lo svolgimento del monologo sino alla scena finale. L’evidenza del corpo (e della sua postura, a gambe accavallate e contrita in un misto di timidezza e istinto di auto-protezione) in quanto certificazione del testo: il personaggio in scena si trova un passo al di qua della sua più completa personificazione (ovvero della sua trasfigurazione finzionale), preso a metà strada fra una parola che ne invera la biografia e una rappresentazione fisica che, se da una parte combacia con l’andamento della storia, dall’altra reclama la sua appartenenza all’identità attoriale di cui è espressione, quella di Silvia Gallerano. Un corpo sdoppiato, fra finzione e concrezione, epperò senza alcun dubbio al centro della scena e dei discorsi. Si tratta davvero di una scelta che ha qualcosa di perentorio: prendere o lasciare, sembra dirci l’impatto con il nudo.
Ma, allo stesso tempo, è anche una scelta che lascia ampi margini di ambiguità. La luce potente e diretta, la vertigine data dall’altezza dello sgabello sono sia un modo per sottolineare quanto la protagonista si trovi indifesa e in uno stato di debolezza, sia degli elementi che a volte suggeriscono invece una certa autorità e determinazione: Silvia Gallerano “da lassù” anche ci scruta, incute timore e, nei momenti in cui il registro dello spettacolo si eleva assumendo la forma di un’invettiva («… questa plebaglia di codardi e prostituti e prezzolati», «…l’uomo libero deve guardare al cielo»), pare puntare il dito non già alle sue debolezze ma alle nostre. Pure la nudità, dunque, se di primo acchito ci restituisce l’immagine di un corpo esposto alle forze esterne, privo di una reale volontà, piano piano che la narrazione si dipana sembra al contrario prorompere come un gesto di rabbia e di scandalo, come la conseguenza di un reale coraggio, di un desiderio debordante e in qualche modo incontenibile. D’altronde, proprio questa è l’ambiguità di fondo de La merda: uno spettacolo che “sputa in faccia” allo spettatore, lo aggredisce con un linguaggio crudo e provocatorio, ma che in fin dei conti non fa che parlare di un’impotenza generalizzata, senza possibilità di riscatto o redenzione. Un urlo smorzato, fra il disincanto e la disperazione.
Si tratta di una caratteristica che potrebbe ascriverlo al filone dell’in-yer-face theater e in tal senso è stato infatti recepito da molta critica inglese. Tuttavia, siamo ben lontani dalle atmosfere evocate dai testi di Sarah Kane, per menzionare uno dei nomi più significativi, oppure dai ritratti caustici apprezzati recentemente nella nostra scena in Wasted di Kate Tempest e riadattato da Giorgina Pi/Bluemotion. Oltre che per tutta una serie di motivi di differenze culturali e generazionali, anche per un diverso procedimento “teatral-percettivo”. Se, per quanto riguarda il contesto anglosassone, la dimensione provocatoria, iperrealistica e contro-spettacolare è innanzitutto un modo di inghiottire il pubblico dentro un vortice drammaturgico, di trasportarlo cioè al fondo dell’abisso della coscienza dell’autore o dei personaggi, la lingua adoperata da Ceresoli sembra più procedere su di una direttrice opposta, che dall’interno va verso la superficie. Utilizzando la stessa metafora dello spettacolo, è proprio come se detriti, scarti, escrementi emergessero a poco a poco attraverso l’avvicendarsi di parole e aneddoti, sino a invadere la scena e infine a illuminare retrospettivamente tutta la narrazione di una luce sinistra, dissacrante e angosciata.

In questo senso, la vocalità di Silvia Gallerano – che in tutto e per tutto arriva a fondersi con la sua corporeità – assume un ruolo centrale. Il testo viene definito dallo stesso autore come una “partitura in tre atti” proprio perché suoni e inflessioni diventano “veicoli significanti” di primo piano nell’orientare l’interpretazione, nel definire quasi l’intera struttura e le diverse stratificazioni del discorso. A volte, il modo di rivolgersi al pubblico e di articolare le frasi è dimesso, reticente come a esprimere la violazione di un sentimento di intimità. Altre, improvvisamente, il tono della voce verticalizza le parole, astraendole dai loro riferimenti concreti per elevarle verso i territori della sentenza, dell’inferire secco e quasi profetico. Quella di Silvia Gallerano più che una recitazione è un vero e proprio recitato nell’accezione del termine riferita alla musica lirica. E, per continuare il paragone, l’elemento interessante è dato dal fatto che i cambi di tono, registro, di attitudine vocale dell’attrice insomma, non avvengono in una maniera armonica e strettamente coerente con lo sviluppo del discorso, attraverso magari dei crescendo della narrazione o delle sospensioni dell’intreccio, bensì come fossero degli obbligati in senso musicale, dei passaggi cioè preimpostati per una mutazione dei ritmo e delle sonorità. Così appunto si va dallo sforzato o fortissimo di alcuni momenti a sussurri, da piattezze monocromatiche a enfasi quasi artificiose, senza una vera e propria soluzione di continuità. Un procedere altamente autoriale, sebbene sorretto in maniera affatto non secondaria dalla specifica presenza di Silvia Gallerano, che conferisce alla protagonista della performance una sottile multi-dimensionalità: ora incarna in tutto e per tutto il personaggio e le sue vicende, ora si lascia andare a invettive di carattere più generale quasi da narratore onnisciente, ora figura astratta e universale che chiama in causa direttamente la coscienza dei singoli spettatori… In tutto ciò, ovvero nell’alveo di questa sottile multi-dimensionalità, si produce poi un ulteriore movimento ambiguo, cui accennavamo sopra. L’attrice, appunto, nella sua interpretazione sembra arrestarsi sulla soglia di personificazione della protagonista. Non c’è, cioè, una reale dialettica interno/esterno, per cui Silvia Gallerano a volte si immergerebbe nel personaggio per poi magari uscirne in altre occasioni con minore o maggiore misura. Piuttosto, è proprio come se ci si attestasse su una particolare “frequenza”, uno stadio che impercettibilmente precede la rappresentazione piena: della protagonista de La merda, d’altronde, arriviamo nel corso della narrazione a incontrare numerose connotazioni (le cosce “grosse”, il rapporto con il padre e con la madre, la bulimia, il suo spirito di sacrificio, etc.) senza però che il personaggio arrivi mai a costituirsi come soggetto teatrale, vale a dire come individuo teatralmente unico e indivisibile.

Ora, l’idea è che un tale principio de-soggettivante o pre-soggettivante sia in qualche modo già connaturato a quello che è uno dei temi portanti dello spettacolo: il sesso, o la sessualità. Dice la filosofa e psicanalista slovena Alenka Zupancic nel suo recente libro Che cosa è il sesso:

«[…] l’imbarazzo che abbiamo nei confronti del sesso, il bisogno di nasconderlo, ma anche di controllarlo e di regolarlo, non può certo essere spiegato soltanto con la “tradizionale” proibizione della sessualità. Semmai è la proibizione che deve essere spiegata a partire da uno sbandamento ontologico del sessuale in quanto tale. […] La tradizionale divisione fra mondo maschile e mondo femminile (come domini e sfere separate, ad esempio pubblico e privato) in realtà non vede la differenza sessuale come una differenza, ma come un problema di appartenenza a due mondi separati, che sono “diversi” secondo la descrizione di un punto di vista oggettivo e neutrale, ma che altrimenti possono coesistere come parti integranti nella gerarchia di un ordine cosmico e superiore, la cui unità e interezza non è in alcun modo minacciata da questa “differenza”. Sono parti che “sanno dove stare”. E il femminismo, come movimento politico, mette in discussione e rompe proprio questa unità del mondo, basata su un’enorme repressione, subordinazione ed esclusione. Ancora una volta: non si tratta di un’esclusione dell’identità femminile, al contrario il mito dell’identità femminile è proprio quello che ha reso possibile quest’esclusione e l’ha sostenuta. Il tema della “identità femminile” sostiene la differenza e l’esclusione a livello prepolitico, al livello dell’appartenenza a due mondi diversi. In questo senso, una politica emancipatoria inizia con una “perdita d’identità” e non c’è niente di male in questa perdita».

Alenka Zupancic, Che cosa è il sesso (Ponte alle Grazie 2018)

La merda è un testo che gronda di elementi relativi al sesso o alle relazioni “sessualmente intese”. A partire dalla nudità dell’attrice che, seppur in minima parte, chiama in causa lo “sguardo desiderante” degli altri personaggi evocati dalla narrazione e di noi stessi spettatori, per poi approfondire la natura dei rapporti della protagonista con “maschi”, intrattenuti (dal fidanzato, agli approcci di un compagno di classe disabile o di uno sconosciuto in metro, con sempre qualcosa di “tossico”, non pienamente consensuale o comunque insoddisfacente) oppure immaginati (nel segno del sesso come moneta di scambio per raggiungere o mantenere il successo, per cui «quelle che fanno i programmi e che ce la fanno […] chissà cosa devono aver fatto con […] quei maschi che decidono e dispongono e che fanno le convention»), infine prefigurando una “soluzione finale” per ogni problematica legata alle disparità di potere fra generi che consiste in una sorta di auto-annullamento della propria identità per fagocitazione simbolica totale del mondo maschile: «la soluzione […] è quella di mangiarmeli questi cazzi, andare di là e sbranarglieli a morsi, questi loro cazzi, di questi due e di quelli che comandano la televisione, il paese, la famiglia, la patria, sì, perché è solo così, mangiandomeli e sbranandoglieli a morsi, togliendoli da loro per sempre, cacandoli fuori dal culo una volta mangiati, questi loro cazzi, mi lasceranno libera, libera di essere una donna nuova e di fare veramente la vita che voglio e di essere considerata anch’io come una donna con le palle».
In altre parole, si è tentati di leggere questa bulimia metaforica come appunto il bisogno, disperato e ambiguamente inteso dalla protagonista, di rompere l’ordine simbolico della differenziazione sessuale. O comunque, a un livello forse precedente, come segno del fatto che il “sessuale” sia precisamente la dimensione dove si produce qualsiasi soggettivazione, tanto a teatro quanto nella vita reale (sempre che una tale distinzione sia possibile). Ancora Zupancic: «Ciò che Freud chiama sessuale non è quindi ciò che ci rende umani, qualsiasi cosa questo voglia dire, ma ciò che ci rende soggetti, o forse più precisamente è coestensivo all’emergere del soggetto». Perciò, dunque, come dicevamo sopra non c’è “posizionamento morale” da parte della protagonista che in effetti sembra avere un atteggiamento ambivalente rispetto a ciò che subisce e di cui però è in qualche modo partecipe. Non si tratta di trovarsi a metà strada fra l’essere vittima e complice, ma innanzitutto in una condizione di “incertezza soggettuale”. Perciò, dunque, La merda può giustamente essere visto come una sorta di pamphlet, di invettiva, ma non utilizza mai i linguaggi della denuncia o del racconto indignato. Non intende tanto svelare o mostrare gli effetti di certe storture sociali, quanto (sebbene possa suonare altisonante) indagare le condizioni ontologiche a partire dalle quali esistono tali storture.
In definitiva, lo spettacolo di Ceresoli e Gallerano indica il luogo di una frattura possibile. Fra soggetto e identità, sesso e potere, attore e personaggio, testo e contesto. Procede per iperboli, esagerazioni grottesche, provocatorie superfetazioni di linguaggio e di immagini: quasi a voler portare le parole nel loro punto di disfacimento significante che si esprime dentro la “tensione all’inorganico” del corpo in scena. Per questo la nudità dell’attrice non solo è necessaria, ma è in qualche modo il punto sia di partenza che d’arrivo della drammaturgia. Esprime il tentativo di concepire il corpo come orizzonte (negativo) di senso e, dunque, come terreno di una presa di coscienza per infinite sperimentazioni. Esprime infine, ed è lo sforzo comune anche di tanta letteratura, di concepire il corpo – che mangia, scopa, caga – come una suprema contingenza, e di contro le contingenze del corpo – la bulimia, il sesso, la merda – come assoluti: nel solco della loro materialità, il teatro diventa una temporanea ipotesi di trascendenza.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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