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Teatro e partecipazione. Un weekend a Fuori Luogo 11

di Giuseppe Di Lorenzo

Questa è una restituzione dei miei due giorni a Fuori Luogo 11 (La Spezia, 7-8 maggio 2022), in cui ho potuto assistere alla messa in scena di Canto degli alberi e partecipare alla tavola rotonda “Saremo tutto? La partecipazione: ricette, dosi e effetti”. Con la direzione artistica di Andrea Cerri, Renato Bandoli e Michela Lucenti, questa undicesima edizione di Fuori Luogo è avvenuta come di consueto nello spazio del centro “Il Dialma – cantiere creativo urbano” a La Spezia.

Preferenze evolutive

Mentre scrivo non è che mi sia ancora ben chiaro come io sia finito a parlare della relazione tra batteri, sentimenti e teatro in una tavola rotonda sulla “partecipazione”, ma credo che questa strana correlazione tra biologico e umanistico sia germogliata per colpa di un intervento di Antonio Moresco quattordici ore prima che cominciassi a sproloquiare di emozioni e neuroscienze. Ecco, non proprio l’inciso che immaginavo per questo pezzo su una delle più interessanti proposte di quest’anno, ovvero un fine settimana di spettacoli e incontri all’interno dei percorsi di Fuori Luogo 11 (di cui, purtroppo, ho seguito solo una parte). Ma ripeto: è colpa di Moresco. Era sabato, fuori l’aria si rinfrescava decisamente mentre il sole se ne andava giù, mancava davvero poco allo spettacolo e Moresco veniva intervistato per noi da Renato Bandoli sul suo ultimo romanzo Canto degli alberi (Aboca, 2020). Non senza una certa timidezza, lo scrittore e drammaturgo mantovano ripercorre le strade abbandonate durante il lockdown, nelle quali passeggiava solitario notando i particolari più strani, come la feroce tenacia con cui la natura avvolgeva il centro urbano senza che noi umani ce ne accorgessimo, crescendo tra il cemento, il vetro e l’acciaio, spuntando fuori con i suoi ramoscelli assetati di raggi solari dai tombini più scuri. È nata così l’idea di un dialogo impossibile con gli alberi, in cui il monito suggerito dalla scrittura è quello di un «salto di specie», una sorta di metamorfosi verticale verso il mondo dei vegetali e la loro «intelligenza diffusa». Ma un aspetto che mi ha lasciato interdetto nelle parole di Moresco è stata una rivisitazione in chiave poetica dell’evoluzione: «I pesci si sono evoluti in mammiferi perché lo volevano». Per quanto non ci sia concesso sapere cosa vogliano i pesci tutt’ora, nell’ultimo secolo abbiamo invece teorizzato diverse ipotesi alla base dei meccanismi evolutivi. Superato il concetto che sia semplice «adattamento» (Ernst Mayr), possiamo immaginare l’evoluzione come lo sforzo di una specie di migliorare la propria condizione di partenza. Non c’è volontà, il carbonio non “vuole” strutturarsi in diamante o in un porcellino d’india, e il porcellino d’india non “vuole” avere le ali, è più una dinamica di «preferenza», come dicono gli esperti di meccanica quantistica (Carlo Rovelli). Il caso e la necessità provocano l’evoluzione. Ma nella poetica di Moresco non c’è spazio per il caso o per la necessità, il suo interesse è calamitato dalla struttura causale di ordine morale che soggiace al mondo, praticamente il terzo principio della termodinamica in drammaturgia.

Questo lo si evince in maniera plastica dalla messa in scena di Enrico Casale di Canto degli alberi, partita dal testo rielaborato per il teatro da parte di Moresco stesso che, per rendere dinamiche quelle parole comunque ancora tanto legate alla pagina, ha deciso di sfruttare il movimento interno al racconto per far muovere il pubblico. Canto degli alberi è una messa in scena in quattro punti cardinali, ognuno dei quali va raggiunto camminando attraverso e fuori la struttura stessa del Dialma. I protagonisti assoluti sono i trenta ragazzi che hanno seguito i laboratori tenuti in Fuori Luogo 11, non solo come attori (qui accompagnati da Alessandra Dell’Atti, collaboratrice storica di Moresco), ma addirittura chi in veste di tecnico e chi perfino come sguardo critico, in quel caso seguiti da Maddalena Giovannelli e Alessandro Iachino della rivista Stratagemmi, con i quali hanno prodotto una bellissima fanzine intitolata “Play The Critic”. Ogni scena pensata da Casale era un quadro dove s’imponeva una relazione individuo-massa, in cui la massa erano ovviamente la natura pensante, le radici, gli arbusti, le fronde che, come un alveare, si muovevano organicamente, provando così a raccontare con i corpi prima ancora che con le parole. Un giovane attore protagonista (avatar di Moresco) interagiva per noi con queste moltitudini vestite di un candido bianco, dalle quali non sapeva mai cosa aspettarsi, se curiosità o rancore.

I sentimenti degli umani inondano l’atmosfera e influenzano gli alberi, gli alberi cresciuti nelle case di persone perbene sono alberi morigerati, mentre quelli cresciuti nell’astio e nei cattivi sentimenti sono alberi pericolosi, di cui diffidare. Culmine estetico del nostro percorso tra interno/esterno dell’edificio, un grandioso albero appeso al contrario dipinto di bianco, che sembrava ammonire un mondo moralmente ribaltato, dove la natura deve adattarsi all’uomo e non viceversa. Finita la messa in scena, di cui non voglio raccontare troppo essendo uno spettacolo così nuovo, una delle cose che in maniera ilare è balzata all’occhio parlando con i tecnici è stata proprio la poca praticità dell’albero appeso al contrario, non tanto per l’oggettiva difficoltà nel posizionarlo così in alto, quanto nella sua costruzione, avvenuta tutta all’interno della palestra del Dialma, senza pensare alle piccole porte che non ne consentono un’uscita… integrale. Ma questa immagine mi è rimasta impressa anche per via della drammaturgia stessa del testo. Canto degli alberi è un microcosmo, tanto fiabesco quanto criptico, a volte stretto e lineare, altre aperto e inconoscibile, in cui la chiave di lettura è palesata in tutti i modi, ma le sue conseguenze sono inafferrabili e forse troppo grandi per essere comprese in un solo colpo d’occhio.

Vivere è partecipare

«Le risposte culturali sarebbero state create da esseri umani intenzionati a cambiare la loro situazione vitale per un futuro migliore, più rassicurante, più piacevole, più propizio, un futuro di benessere, dove i problemi e le perdite che inizialmente ispirarono le creazioni sono ridotti. In concreto, non solo per un futuro in cui è più facile sopravvivere, ma per un futuro in cui la vita è migliore»

Antonio Damasio, Lo strano ordine delle cose

Con queste suggestioni di una natura in piena metamorfosi che ancora si dimenava nei nostri ricordi, il giorno dopo Maddalena Giovannelli e Alessandro Iachino hanno aperto l’incontro tra operatori, pubblico, artisti, produttori e critici. In “Saremo tutto? La partecipazione: ricette, dosi e effetti” – questo il nome della tavola rotonda che prende ispirazione proprio da un progetto di Zona K e degli Scarti con Alessandro Renda e Jens Hilje – il perno dell’incontro erano alcune riflessioni contenute nel saggio di Claire Bishop Inferni artificiali. La politica della spettatorialità nell’arte partecipativa (Luca Sossella Editore, 2015). Ci è stato chiesto di raccontare lo stato attuale delle pratiche partecipative, se funzionavano, dove c’erano e, laddove mancavano, il perché dell’assenza. Il dialogo scaturito ha seguito quella mutevolezza che la messa in scena del giorno prima ancora sottilmente ci suggeriva. Ci sono state molte testimonianze di pratiche, a partire da Alessandro Renda (Teatro delle Albe) che ha parlato di costruire avventure teatrali cominciando da un lavoro sulla coralità, mettendoci al corrente di un progetto ancora embrionale tra La Spezia e Milano che racconterebbe dei “care worker”, ovvero dei lavori invisibili nelle nostre RSA, e che sarebbe trainato dall’urgenza di andare in scena con una mescolanza di professionisti e non-professionisti del teatro – caratteristica fra l’altro tipica di molti lavori del Teatro delle Albe.

In seguito Andrea Cerri (gli Scarti), parte del gruppo della direzione artistica di Fuori Luogo 11, ha messo in luce la lunga esperienza di laboratori con i ragazzi al Dialma fin dal 2012, passando per i vari progetti legati alle disabilità e ai detenuti (tra cui anche lo spettacolo Tutto quello che sono di Renato Bandoli ed Enrico Casale andato in scena il 26 e 27 maggio al Teatro degli Impavidi di Sarzana). Per Cerri costruire una comunità partecipativa significa essenzialmente non solo fare teatro, ma soprattutto andare a teatro. Queste occasioni di partecipazione devono formare prima di tutto amanti del teatro, meglio ancora se futuri abbonati, quella benzina di cui adesso l’intero sistema è a corto. Ha messo invece l’accento sui bandi Valentina Picariello (Zona K), un tema che ha in seguito coinvolto buona parte della tavola rotonda. L’esperienza di Picariello parte dalla positiva relazione con Banca San Paolo, la quale però, secondo lei, gioverebbe moltissimo della presenza a monte degli operatori nella messa a punto dei bandi proposti dalle fondazioni stesse; questo perché certe richieste specifiche dei bandi mettono dei paletti di rigidità laddove invece la flessibilità è necessaria per l’imprevedibile natura della progettualità artistica. A questo punto Iachino ha messo in fila le criticità fin lì sollevate: le pratiche reali contro la staticità dei bandi, la progressiva scomparsa dello sguardo sostituito dal fare teatro, i vincoli economici, e ci ha chiesto quali possano essere le soluzioni (evocando pratiche di partecipazione positive degli ultimi anni come “i cittadini” di Virgilio Sieni, il quale però rientra sempre in una logica di restituzione al pubblico).

L’intervento di Michele Altamura (Vico Quarto Mazzini) è stato incentrato proprio sullo sganciare del tutto il tema della restituzione dalla progettualità laboratoriale. La sua sensibilità nasce dall’attivismo politico, che pur non travasandosi direttamente negli spettacoli riesce comunque a influire su di essi, e che quindi si traduce in pratiche con scopi spesso di natura civile. Ci ha raccontato del suo periodo di attività agricola condotta da XFarm a San Vito dei Normanni (Puglia), associazione che lavora su 50 ettari di terra confiscate alla criminalità organizzata, condotta secondo le pratiche dell’agricoltura organica e rigenerativa, oltre al portare avanti un complesso lavoro sulla comunità e sulla tutela dei diritti dei lavoratori stessi. Con loro Altamura ha prodotto un podcast ascoltabile da chi effettivamente si trova a XFarm, creando una sorta di testimonianza audio a chilometro zero. In conclusione Altamura ha rilanciato una provocazione in chiave anti-capitalista, chiedendo a sé e quindi ai relatori presenti come sganciare il consumo dalla cultura, laddove questa si traduce sempre in un prodotto, con tutte le dinamiche conseguenti.

Per Enrico Casale (gli Scarti) la questione della polarizzazione tra “sguardo” e “fare” nemmeno si pone: andare in scena dev’essere parte di un percorso in cui lo spettacolo rappresenta il culmine «dionisiaco», la festa alla quale il pubblico è chiamato a partecipare, e se il pubblico è anch’esso in scena tanto meglio. Casale vede negli studenti, nei disabili e nei carcerati, persone che a diversi livelli di intensità vivono comunque sotto delle istituzioni, e il palcoscenico è la loro possibilità per sganciarsi dalla vita istituzionalmente regolata e portarli «nella vita vera che è il teatro».

Renda, riprendendo queste suggestioni e ricordando che il suo personale percorso è nato da una chiamata non molto diversa da quelle che fanno gli Scarti a La Spezia (in quel caso era il 1998 a Ravenna con I Polacchi del Teatro delle Albe), spinto da questa memoria ha afferma: «Non so cosa sia il “teatro sociale”, per me si fa solo teatro e basta». Ma ciò non toglie, sempre secondo Renda, che esista un elemento di protagonismo nelle chiamate pubbliche, prestando così il fianco a edonismi che non hanno nulla di sociale. Anche Renda ha chiuso il suo intervento ponendosi una domanda ad alta voce e invitandoci a riflettere se siamo poi così sicuri di star coltivando degli spettatori, ma soprattutto: «Da quando gli spettatori si coltivano?». Casale si è lanciato in una replica lapidaria: per lui non esiste il protagonismo a teatro, perché «se qualcuno cade allora cadono tutti», riferendosi evidentemente alla scena. Di certo però Renda ha messo in luce una questione urgente, ovvero: “che spettatore è lo spettatore coltivato dentro il teatro e non fuori?”.

Iachino a questo punto ha rilanciato una riflessione di Claire Bishop sul valore ricattatorio del giudizio estetico quando in scena c’è la nostra comunità, chiamandomi in causa in quanto osservatore critico. Ho risposto che non ritengo sia possibile scindere il giudizio dallo sguardo, che sia di un critico o di un avvocato. Per quanto siano estremamente stimolanti le realtà messe in piedi in questi anni da gruppi come Stratagemmi (come anche dal nucleo fondativo della mia stessa redazione, ovvero Altre Velocità), la dimensione laboratoriale non è la dimensione naturale della critica, semmai è una risposta per sopravvivere laddove senza pubblico non ci sono lettori, e senza un intervento culturale politico delle istituzioni, la critica ha dovuto ricoprire un importante ruolo pedagogico. Tornando al giudizio: noi giudichiamo la realtà attorno a noi, selezioniamo le cose secondo un preciso ordine valoriale soggettivo, siamo influenzati dal giudizio altrui, e anche senza desiderarlo o volerlo, giudichiamo gli eventi a cui assistiamo quotidianamente. Il giudizio inoltre non è un elemento slegato dalla realtà, ma è frutto delle nostre esperienze, cresce in noi nella strada che facciamo per arrivare a teatro, nelle persone che incontriamo prima e dopo, e su questo Alessandro Renda si è inserito per ricordarci la dimensione ordinaria del teatro, come luogo in cui, alla fine, ci vai perché «ci stai bene».

È stato proprio a quel punto del dibattito che mi sono venuti in mente i batteri. Antonio Damasio, neuroscienziato portoghese, ha mostrato come nei batteri esistano i prodromi delle dinamiche sociali di gruppo. I batteri infatti si riconoscono tra simili, mettono in disparte i meno efficienti, creano fazioni, si scontrano oppure si alleano momentaneamente contro un nemico più grande; il tutto senza l’ombra di un sistema nervoso. Questo perché le dinamiche di gruppo esistono come mano invisibile dell’evoluzione, è quella spinta a cercare sempre una situazione migliore a quella di partenza. Ma un aspetto ancora più particolare della ricerca di Damasio, in parte recuperabile ne L’errore di Cartesio (Adelphi, 1995) e Lo strano ordine delle cose (Adelphi, 2018), è la relazione tra sentimenti e ragione. Se comunemente tendiamo a ritenere le emozioni come una delle parti meno razionali del cervello, gli studi di Damasio (oggi confermati dai lavori di David Eagleman e Patricia Churchland) dimostrano come siano proprio i sentimenti l’origine dei pensieri razionali. I sentimenti sono le esperienze soggettive dello stato vitale di ogni creatura in possesso di una mente e la nostra ricerca costante di sentimenti positivi è espressione stessa di quella necessità di trovare qualcosa di migliore, di stare bene. Su questa nota ho pensato di chiudere la tavola rotonda, provando a collegare il «salto di specie» di Moresco alla natura partecipativa del teatro, sottolineando quanto lo stare a teatro non abbia niente a che fare con le politiche culturali o con la pedagogizzazione dello spettatore, ma bensì con la nostra innata necessità di voler stare bene. Forse, come ha detto Casale nel suo intervento, alla fine il segreto per la partecipazione è davvero tutto lì, nel vivere il teatro per vivere la vita vera.

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