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Survival Kit 2024: e stiamo lì come d’inverno sugli alberi senza le foglie

di Altre Velocità

Pacchi, pacchetti e pacchettini. Sotto l’albero del teatro c’è l’imbarazzo della scelta. Poi cosa si trova dentro è un altro paio di maniche. «Un pacco!». «Sì, solo un bellissimo pacco e cosa ti aspettavi?». L’importante è scartare. Scartare il due di picche per fare la tua briscola, la tua scopa. Scartare l’avversario. Scartare il pacchetto e rimanere allibiti di fronte al nudo vero. Cosa ti serve? Un survival kit. Lo facciamo da molto tempo a fine anno. Per la precisione dal 2014. Sono perciò dieci anni. Dieci anni di kit di sopravvivenza, e per fortuna siamo ancora vivi e non sogniamo pecore elettriche (ma forse in questi dieci anni le pecore elettriche hanno cominciato a sogniarci!).
Ogni volta lo ripetiamo. Non è una classifica. Ma ci somiglia. Non è un premio. E infatti non si vince niente. È un elenco di cose (spettacoli, progetti, libri, film ecc.) che ci vogliamo portare dietro nell’anno che verrà. Il 2023 è stato l’anno tragico delle guerre che non finiscono. Delle propagande, delle bugie, dell’odio, dei nuovi equilibri, delle vendette, dei buoni e dei cattivi. Uno tsunami di armi diaboliche. Per il teatro un anno di sgretolamento. E tra le crepe qualche bellezza. Frutto del caso? A volte. Più spesso percorsi profondi, lunghi nel tempo, ostinati, che non si accontentano delle bolle di sapone, ma scavano, scavano e ancora scavano. Pieghiamo la testa nel nostro piccolo mondo per consolarci, a volte per non pensare e, nei casi migliori, per cogliere qualche riflesso del grande mondo. Tra stelle filanti e alberi del teatro scopriamo pacchi pieni di meteorismi, discettiamo sulla carta regalo e il colore del fiocchetto. Poi suona il nostro nuovo amico per farci gli auguri mentre sta per sgocciolare via il vecchio anno. «Che dici, secondo te ha senso inserire anche quest’anno il teatro in un Survival Kit?». «Sì, il teatro può certamente essere considerato un elemento utile e significativo, da inserire in un “survival kit”, naturalmente in un contesto più metaforico o simbolico». «Ma secondo te perché? E in che modo?». «Per sette motivi. Il primo è distrazione e intrattenimento». «Amico mio, ma è tutta la vita che vado a teatro per concentrarmi e liberarmi!». «Allora forse per te vale il quinto motivo, team building e risoluzione dei problemi». «A teatro vado di solito da solo». «Allora il motivo numero due è perfetto: comunicazione e connessione umana». «Vuoi venire a teatro con me?» «Mi dispiace, ma non posso venire a teatro con te perché sono un assistente virtuale e non ho un corpo fisico. Spero che tu possa trovare qualcuno con cui andare a vedere uno spettacolo». Chissà se in futuro sarà possibile. Ma il teatro sognato da un pecora elettrica è fatto da pecore elettriche o da esseri umani? «Ci sono molte innovazioni tecnologiche nel settore del teatro che potrebbero rendere possibile la mia partecipazione virtuale in futuro». Allora buona fortuna. Ci avviciniamo con cautela a questo nuovo anno. Sentiamo il ticchettio di un orologio. Forse è solo un’impressione. C’è del cattivo odore. Ma non è detto che provenga dal pacco. L’anno ormai è arrivato. E stiamo lì come d’inverno sugli alberi senza le foglie a leggere il bigliettino di buon auspicio: «Con tanti cari auguri».
(Rodolfo Sacchettini)

Il Survival Kit di Altre Velocità segnala all’inizio dell’anno una decina di spettacoli/progetti/artisti/libri che nell’anno precedente ci hanno tenuto svegli e che vogliamo portarci dietro, perché ci sembrano utili per orientarci, individuare nuove piste, vederci più chiaro. Buon 2024!

disegno di Marco Smacchia

«Tipo quella volta, a La Spezia…»

Ci sono momenti che carichiamo di aspettative, sperando imprimano un segno; altri che viviamo semplicemente per come sono, lasciandoci da essi attraversare. Spesso son quest’ultimi a incidere davvero, ma lo si comprende a posteriori, quando si nota che la mente ritorna di continuo a quella situazione, a quelle parole, persone, contesti. E se ciò avviene contemporaneamente a un gruppo più o meno ampio di individui, allora forse quel momento è da conservare sul serio.  A riecheggiare in questi mesi nei discorsi fra alcuni critici, giornalisti e studiosi di “nuova generazione” (quanto è scomoda questa parola) è stata una città, La Spezia, e un momento: «quella volta che» a maggio, negli spazi di Fuori Luogo, ci si è riuniti insieme ad artisti e operatori per una tavola rotonda dedicata alla scena emergente (altra parola scivolosa). Il contesto era la prima edizione di Tutta la vita davanti. Festival di teatro per vecchi del futuro, una tre giorni organizzata dal Centro di Produzione Scarti, con la direzione artistica di Alice Sinigaglia, che ha composto una programmazione di nove spettacoli di compagnie e artisti under35. Si è puntato a creare un luogo accogliente di incontro e scambio, per provare a costruire fra (quasi tutti) coetanei un discorso condiviso e generazionale attorno al teatro, al suo senso e alle possibilità del nuovo di fronte a un sistema culturale che sembra poco permeabile. Ciò che torna alla mente – e custodiamo – è proprio la calda sensazione di essere capitati in uno spazio-tempo condiviso per nulla scontato e che ha acceso una piccola fiamma da alimentare. Particolarmente preziosa in tal senso è stata la tavola rotonda sopra accennata, che ha “costretto” almeno trenta persone fra giovani artisti, critici e operatori a riunirsi per cinque dense e intricate ore in una vera e propria assemblea. Si è così andata a forzare la frammentazione odierna invertendone il moto, da centrifugo a centripeto. Moderato da Alessandro Iachino (Stratagemmi), e con alcuni interventi di altri giovani critici, non è stato un incontro semplice e le “particelle” a tratti sembravano voler rifuggire il centro. Negli artisti è emersa una certa difficoltà a parlare di poetiche e di estetiche nel timore delle definizioni e delle categorie; ci si è invece concentrati – e a volte incagliati – sul rivendicare la necessità di essere riconosciuti come lavoratori, ma anche della difficoltà di esistere fuori dai circuiti off a causa di logiche di politica culturale rigide e legate a un’idea di teatro che, se non si può dire superata, quanto meno non dovrebbe essere la sola esistente. Sono dati rilevanti, oggi, forse sintomatici di un diverso modo di pensare e intendere la pratica artistica? Di ancoraggi infruttuosi al passato, siamo stati vittime anche noi nel cerchio: da una parte l’artista diffidente nei confronti del critico perché ancora considerato un “Re-censone” crudele e spietato della carta stampata (!), dalla penna così acuta da poter incidere sulle scelte di programmazione (!); dall’altra il critico nella sua nuova veste che, ingenuamente, ha dato per scontato fosse evidente il proprio cambiamento, rendendosi invece conto che – forse ancor più del teatro emergente – non è riuscito ad affermare in modo chiaro uno spazio di esistenza diverso dalla “vecchia” critica. È forse da qui, e dalla alla forza dello stare insieme, che finalmente gli sguardi si sono alzati per incontrarsi sul serio e ri-conoscersi. Le questioni, aperte e in continuo divenire, sono nodi a cui si ritorna ancora spesso fra giovani artisti, critici e studiosi, che ora si relazionano con più fiducia e meno diffidenza, per tentare di orientarsi e immaginare alternative possibili. Fra giovani critici, invece, è nata l’urgenza di incontrarsi ancora e interrogarsi sul proprio ruolo su un piano più collettivo. Sì, giovani, perché lo siamo in fondo ed è tempo di riappropriarsi, con responsabilità, di questa parola connotata troppo spesso negativamente: essa ha a che fare col fuoco e il suo rischio adrenalinico di bruciarsi, con la fame che spinge a cercare, con la leggerezza dei sogni che disegnano immaginari. Non è poco, quel che è successo in “sole” cinque ore seduti in cerchio «quella volta a La Spezia». (Ilaria Cecchinato)

Still Alive di Caterina Marino

Non ha debuttato nel 2023 ma due anni prima, molti lo hanno già visto eppure quello che ha da dire Still Alive di Caterina Marino sembra diventare più urgente col passare dei mesi. Giovane autrice e attrice, talvolta accostata a figure romane che hanno fatto scuola, la Marino ha scelto con coraggio di fare uno spettacolo sulla debolezza e sulla crisi, le proprie. In una società che premia il performante, in tempi in cui l’autoindulgenza ammicante ne è il furbo contraltare, questo spettacolo mostra un’altra possibilità: raccontarsi senza celare il dolore e così scartare dal narcisismo, senza affogare il tormento nella pur presente ironia, mettendo al centro della relazione quelle incrinature (anche d’attrice: nei gesti, nella voce) che potrebbero spalancare abissi lì sul palco. Così si arriva a dubitare, non per posa, anche del teatro stesso, della sua possibilità di farsi terreno pubblico per raccontare. Si può, forse si deve mettere in dubbio che il teatro possa salvarci: così dunque possiamo cercare di “salvarlo”. (Lorenzo Donati)

La chimera di Alice Rohrwacher

Se c’è un oggetto culturale che transiterei sul nostro arcipelago di inizi per questo duemilaventiquatresimo anno dalla nascita di Cristo io porterei con me La Chimera di Alice Rohrwacher. Dopo l’iniziale fatica del film a farsi guardare, causa la sua proiezione in pochissimi cinema, la regista e l’attore protagonista, Josh O’Connor, lanciano un video di protesta sui social: “Bussate alla porta del vostro cinema, chiamateli, scrivetegli una mail e ditegli: proiettate La Chimera”. Il filmato ha fatto il giro online e l’opera è venuta a galla. Di recensioni al film ve ne sono di bellissime, tra cui quella di Rodolfo Sacchettini per la rivista Gli Asini. Mi sento di aggiungere solo quella che è stata in me la chiave e il coltello: un’immagine. C’è una scena in cui Italia indica ad Arthur un albero che le pare un uomo ubriaco. Nel rappresentare questa semplice situazione, la telecamera riprende soltanto per un momento l’oggetto in questione, l’albero; per il resto dell’atto, l’inquadratura rimane fissa sulle mani di Italia che fanno segno di guardare a quell’albero e di provare a vederci quello che vede anche lei. Le sue mani che indicano senza imporsi, mi portano all’auspicio di cominciare a guardare non solo l’altro ma anche come l’altro guarda, senza gerarchizzare le visioni. Inoltre, penso al senso del fare arte come dono, come emersione del sintomo, ma senza soluzioni, senza terapie: quella tocca ad altri; a noi, accorgercene e accogliere. Al termine del film, mentre tutti uscivano sui titoli di coda, ho visto due ragazzi poggiati agli schienali delle sedute del cinema, guardare a terra a braccia conserte e senza dire nulla. Rohrwacher lancia la sua trilogia della memoria in una pigra penisola che dimentica: chissà che a smuovere questa terra nel mare non saranno proprio chimere come questa. (Giulia Damiano)

Baldur’s Gate 3

Sembrava impossibile che un prodotto complesso e sotto molti punti di vista novecentesco come Baldur’s Gate 3 potesse imprimere un repentino cambio di passo nell’industria videoludica mondiale. Era dal 2011 che un RPG non riscuoteva questo successo, era il quinto capitolo di Elder Scrolls, Skyrim, ma neanche il prodigio di Bethesda può competere con il raffinato e profondo meccanismo drammaturgico prodotto da Larian Studios (che ad oggi vanta 22 milioni di copie vendute nei primi quattro mesi dal lancio). L’apertura del pubblico videoludico verso opere complesse, controintuitive e con delle ellissi poetiche tutt’altro che prevedibili, è ormai un dato di fatto. Perfino la riflessione meta-videoludica è diventata un genere mainstream, grazie al successo di fenomeni (prima) di culto come Undertale (2015) di Toby Fox e l’intricata rielaborazione degli significanti grafici nella storia del media in Inscryption (2021) di Daniel Mullins. Il mondo industriale più influente al mondo sta cambiando, con dei fruitori che pretendono opere sempre più ambiziose. Ma non c’è solo Baldur’s Gate 3, che ripescando dall’immaginario di studi di sviluppo come Black Isles e Bioware, mette in scena un fantasy in cui si parla di conflitti sia politici che generazionali estremamente contemporanei, quest’anno hanno incontrato il favore del mainstream anche opere dal forte afflato sperimentale. Elden Ring, della giapponese From Software, è l’ultimo tassello di una carriera strabiliante come quella di Hidetaka Miyazaki, un successo che neanche gli stessi sviluppatori sanno spiegarsi, dato che fanno di tutto per rifuggirne. I loro lavori sono sempre più convoluti in una drammaturgia deduttiva in cui il giocatore ricava le caratteristiche poetiche dell’opera nella relazione tra gli elementi contestuali che abitano il mondo di gioco. I canoni classici del racconto sono implosi, il gioco è indecifrabile tanto quanto la realtà, non è più sintesi, ma una nuova complessità (comunque definita dall’autorialità). In un radicale ribaltamento produttivo, da tempo silenziosamente già in atto, diventano popolari lavori dal grande respiro artistico, che pretendono un’attenzione molto attiva ai dettagli e con una complessa ramificazione di elementi drammaturgici dai risvolti politici, sociali e antropologici. Come se Dostoevskij vendesse più di Fabio Volo, o Lynch staccasse più biglietti del nuovo Superman, o se invece di Netflix la gente la sera andasse a teatro. (Giuseppe Di Lorenzo)

Hartaqat di Lina Majdalanie e Rabih Mroué

Un collage, si sa, ha il potere di tenere acceso il nostro sguardo con diversi fuochi: senza la preoccupazione di stabilire un centro e una periferia tra le sue parti, in esso il singolare ha la libertà di declinarsi al plurale e viceversa. Questa forza, politica oltre che linguistica, sembra custodire anche Hartaqat, spettacolo d’apertura del Festival Colline Torinesi 2023, composto da tre racconti commissionati da Lina Majdalanie e Rabih Mroué a Rana Issa, Bilal Khbeiz e Souhaib Ayoub – amici, artisti e scrittori accomunati, secondo diverse coordinate geografiche e cronologiche, dall’esperienza della fuga dal Libano. Le voci insieme compongono un “paesaggio” dove il mito – o meglio dire l’illusione – della linearità viene meno per lasciare spazio ai precipizi, alle pieghe, alle interruzioni dei loro corpi e delle loro memorie, di chi ha dovuto abbandonare la propria terra per “nascere una seconda volta” in un altrove sconosciuto, l’Occidente. Una metamorfosi dolorosa che si nutre di molteplici vite, reali e immaginarie, di rimembranze e fantasmi, ma anche di culture e identità, di lotta alla sopravvivenza, e che spesso fatica a trovare legittimità nello spazio collettivo e pubblico. Hartaqat, in italiano “eresie”, andato in scena a Torino a pochi giorni dallo scoppio della guerra Israelo-Palestinese, ci scuote per la limpidità, l’impronta della sua “presenza” – un bagliore simile al fuoco attorno al quale riunirsi per raccontare le storie. (Vittoria Majorana)

Infanzia è filtro per guardare scrive Beatrice Baruffini

Quasi allo scoccare del 2024 Nuova Editrice Berti, casa editrice indipendente con sede a Parma, saluta l’anno che è passato con la pubblicazione di un volume a metà tra un diario di lavoro, un colloquio tra un’artista e la sua personalissima ricerca e un deposito di voci bambine raccolte in presa diretta attraverso il gioco del teatro. Beatrice Baruffini, autrice di questo testo, dal titolo I dialoghi dell’infanzia, nel suo lavoro a contatto con i più piccoli si definisce più un investigatore che sta cercando qualcosa e il segreto nella pratica artista – come indica nell’introduzione al libro – può essere quello di cominciare con una domanda insieme a loro. Dentro il volume leggiamo discorsi seri o enormi speculazioni, portate avanti da una lingua bambina a partire da un incontro col teatro-chiave d’accesso per guardare il mondo, in cui sembra di percepire altrettante voci più antiche, quelle degli alunni di Mario Lodi raccolte durante la sua esperienza di maestro elementare in Valle Padana vissuta fra il 1951 e il 1962. Nel volume di Beatrice Baruffini a corredo dell’esposizione di tre avventure teatrali, Dialoghi dell’infanzia, Ti passo la scuola e Piccole guide poetiche, progetti nati o co-creati con l’infanzia prevedendo di volta in volta un esito esterno e avendo come referente un pubblico adulto, troviamo le drammaturgie di queste esperienze pensate per spazi aperti aperti, fuori dal teatro. «“Con chi giochi?” è una domanda che ti devi fare prima dell’intervallo lungo, quello del dopo mensa. Così ti organizzi. Mentre la maestra spiega tu pensi a che gioco fare: ce l’hai, zombie, calcio, la battaglia, It. Sempre che la maestra non stia spiegando qualcosa di interessante; il che succede abbastanza spesso». Una lettura preziosa per scoprire una ricerca piccola continuamente aperta a nuove forme di conoscenza; un quaderno di lavoro da custodire, far circolare nei laboratori e tramandare per dare vita a un teatro impertinente in cui il gioco, forse, è finito e la parola sa e ancora vince. (Damiano Pellegrino)

François Chaignaud e Radio Vinci Park

Si sarebbe tentati di “bruciare tutto”, verrebbe dunque la voglia – paradossale per un “survival kit” – di non sopravvivere, di abbandonarsi all’apocalisse. Non è solo una consunta boutade provocatoria, è proprio questione di aritmetica: il 2023 appena passato è stato “l’anno più caldo di sempre” (e il 2024 sarà ancora più caldo, e così via per il 2025, 2026, ecc.) mentre da circa un decennio si è invertita quella tendenza globale che vedeva diminuire conflitti, guerre e violenza armata (siamo al picco più alto dal 1984, in piena Guerra Fredda, mentre l’orologio nucleare ha raggiunto proprio l’anno scorso la sua massima vicinanza con la mezzanotte atomica). Tanto teatro, generoso e intelligente, non vuol far la figura dell’“orchestrina sul Titanic”, e allora si riflette, ci si arrabatta, ci si impegna a portare sul palco temi e problemi, lotte, denunce, allarmi – si prova a immaginare, a proiettarsi nel futuro, nonostante che. È il dovere civico e politico degli artisti, degli intellettuali. Poi capita una notte di fine estate, un parcheggio sotterraneo di un centro commerciale, un clavicembalo, una moto da corsa fiammante e misteriosa. Capita che François Chaignaud, assieme a Théo Mercier, con Radio Vinci Park (in scena al festival di Short Theater) ci ricorda che il teatro soprattutto in un momento in cui appare un lusso inutile e impotente – possa essere invece radicalmente inattuale. Ancor di più: bizzarramente ucronico, eccentrico e spropositato, alla ricerca non di qualcosa di urgente da dire o da mostrare ma quasi espressione di un personale capriccio, di una peculiare vocazione al godimento del gesto e dell’immagine (Say yes to another excess, titolava un’altra sua performance). Una visione vera, perché fuori dal tempo (o meglio, dall’ansia di dover essere al passo coi tempi). Un punto di vista finalmente condivisibile, poiché ferocemente parziale e “alieno” al senso comune. «Salvatevi dalla parola che dura». (Francesco Brusa)

Io e il Secco di Gianluca Santoni

Denni (Francesco Lombardo) è un ragazzino di dieci anni che vive nei pressi di una spiaggia deturpata romagnola. Il padre è violento, la madre di Denni ha diversi lividi: il film inizia con una visita in ospedale. Denni, parlando con un’amica coetanea, scopre che lei ha un cugino più grande che fa il killer. A Denni viene quindi un’idea, concreta e folle: far uccidere il padre. Per farlo incontra e assume il cugino della sua amica, Secco (Andrea Lattanzi). Il rapporto fra i due attraversa diverse fasi: viscerale, intenso, freddo, a volte irrequieto, a tratti ironico. Tra i punti di forza del film ci sono un’ottima recitazione e una notevole sceneggiatura – scritta dal regista stesso insieme a Michela Straniero – vincitrice della menzione speciale Premio Franco Solinas nel 2017.
In particolare è il personaggio di Denni a racchiudere le caratteristiche di qualità del film: Denni è un ragazzino dolce e determinato, ma vorrebbe essere più duro di quello che è nel perseguire il suo intento. La regia riesce a rendere bene questa complessità, rimanendo empatica e delicata ma mai retorica né paternalistica. Ingredienti diversi sono tenuti insieme con coerenza e stile: in particolare i momenti in cui Denni immagina le azioni che vorrebbe compiere sono delle piccole grandi scene di artigianato cinematografico.
Unico film italiano in concorso nell’edizione 2023 di Alice nella città – festival cinematografico e sezione
autonoma della Festa del Cinema di Roma dedicata alle giovani generazioni – Io e il Secco è il primo
lungometraggio del regista Gianluca Santoni, diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma con il cortometraggio Gionata con la G. Io e il Secco è un lavoro realizzato con gusto e competenza: una trama violenta e attuale raccontata da uno sguardo sensibile. Il film uscirà nelle sale italiane durante la primavera del 2024. (Vittorio Lauri)

Giugno 2023, Matera

Caro teatro,

visto da qui, da Matera, dalla prospettiva di un festival come Nessuno Resti Fuori che svela nel nome il motivo della sua importanza, sembra che tu goda di ottima salute. È una gioia vederti così, nella tua semplice essenza di strumento capace di spostare lo sguardo e di creare piccole e grandi rivoluzioni. Questa città è meravigliosa, soprattutto di sera, quando le luci si riflettono sulle pietre lisce delle strade e i Sassi si illuminano. Gli stessi Sassi di cui una volta ci si vergognava e che adesso sono patrimonio dell’umanità. E penso a te, teatro, che per farti bello devi andare dove sai di poter splendere, ma che a volte, per farti utile, sai di dover stare lontano dai riflettori (proprio tu!). Per esempio a Matera, per questo festival, te ne sei andato in periferia e sei bellissimo quando ti spogli degli abiti regali e ti metti comodo, ti riempi le tasche di chiodi, pezzi di legno, cavi elettrici, copioni abbozzati e ti butti in mezzo alla mischia. Ti tirano a destra e a sinistra, a volte ti fanno domande difficili. Tutti ti vogliono, tutti ti cercano, ti dicono che senza di te chissà, chissà… E tu provi a rispondere a tutti, adulti e bambini, come puoi, un po’ timido e un po’ compiaciuto. Questa immagine di te la custodirò, come quelle fotografie che si tengono in bella vista per ricordarsi di tanto in tanto da dove veniamo. Caro teatro speriamo di rivederci presto. (Nella Califano)

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