Un po’ di tempo fa a un ristorante ascoltai la conversazione di due tizi che raccontavano di un enorme sciame di api che aveva avvolto la casa del loro apicoltore, proprio nel momento in cui questo se ne andava per sempre. Come fosse l’estremo saluto delle api alla persona che si era presa cura di loro per una vita intera. Mi sembrò una storia incredibile e chiesi a un’amica con molta esperienza di api se una cosa del genere fosse secondo lei possibile. Mi rispose che a volte accadono i miracoli. Nonostante tutti i nonostante che si possono immaginare capita ancora di vedere spettacoli di teatro belli. Sembra un miracolo. E in fondo lo è.
Per cui bisogna festeggiare i miracoli. E soprattutto sforzarsi il più possibile di saperli riconoscere. Non è detto che il tema attuale, necessario, politicamente corretto sia l’ingrediente giusto per il miracolo. E non è detto nemmeno che le forme droplets siano le strade più sane per una scena che vuole essere contemporanea. Probabilmente la formula per riconoscere un miracolo non c’è e se esiste è una formula magica con ingredienti segreti.
Prima di andarsene il 2022 mi ha lasciato tre piccole frasi che potrebbero essere ingredienti per la pozione magica. Il primo me lo ha suggerito un podcast, Virgo, che ha avvalorato quel che mi diceva il gruppo Almare. Il suono si muove come la luce. Se tendiamo l’orecchio oltre la nostra galassia possiamo ascoltare il suono del passato (che poi ci dice molte cose sul futuro).
La seconda ce l’ho sulla punta della lingua, ma non riesco a ricordarla. E la terza me l’ha detto un caro amico che ricordava l’insegnamento di sua nonna: «Tra cacca e merda non c’è differenza». (Rodolfo Sacchettini)
Il “Survival Kit” di Altre Velocità segnala ogni 6 gennaio una decina di spettacoli/progetti/artisti/libri che nell’anno precedente ci hanno tenuto svegli e che vogliamo portarci dietro, perché ci sembrano utili per orientarci, individuare nuove piste, vederci più chiaro. Buon 2023!
Un nuovo teatro politico?
Nel restringersi dello spazio per agire politicamente dentro partiti, movimenti e associazioni (a cui corrisponde un astensionismo mai visto nel nostro paese), nel declino ormai irreversibile dei media tradizionali e nuovi, dove risorse e spazi per inchieste e reportage sono sempre più esigui e dunque ormai al tramonto è la possibilità di aprire finestre su mondi diversi geograficamente, storicamente o socialmente, qualche spiraglio sembra essersi riaperto nel teatro e nei processi produttivi di alcune compagnie giovani. Sempre al confine con l’autoproduzione, sono percorsi faticosissimi ma non di rado diventano vere occasioni conoscitive e spazi concreti di azione politica. Non si tratta solo degli ormai “capostipiti” Kepler-452, che pure ri-segnano una strada possibile portando le domande dell’arte e dei teatranti a contatto con la fabbrica e con le vite di operai e operaie, vivendo insieme a loro (e viceversa) per mesi (Il Capitale). Quello spazio di incontro politico diviene confronto con l’alterità fra giovani attrici ucraine e italiane in Non Tre sorelle di Enrico Baraldi, in una scena che si fa agorà per istanze contradditorie e non risolte, permettendoci di discuterle; ma c’è anche chi spulcia registrazioni e atti processuali o raccoglie nuove testimonianze per chiedere al teatro di farsi documentario di una frattura storica, ripensata vent’anni dopo da un gruppo di ventenni (Topi di Usine Baug, premio Scenario Periferie 2021, sui fatti del G8 di Genova 2001, quasi che quel seme sotto la neve di cui parlava Alessandro Leogrande germinasse oggi anche in questo spettacolo). In questo come in altri lavori si àncora il teatro alla realtà preservandone il potenziale immaginifico, un po’ come accade in Casa nostra di Hombre Collettivo (premio della critica a Direction Under 30 2021), un gruppo nato nel 2019 che ha l’ardire di darsi un grande compito politico, se noi “adulti” volessimo intenderlo: un affresco sociologico-performativo sulla crescita negli anni delle tivù di Berlusconi, quando loro erano non erano nemmeno bambini, uno sguardo retrospettivo e attuale su come siamo diventati oggi. (Lorenzo Donati)
Il Debate
Da qualche tempo a questa parte nella scuola si sta diffondendo il Debate come strategia didattica. Si tratta di una discussione formale, non libera, dettata da regole e tempi precisi, nella quale un gruppo “affronta” un altro gruppo prendendo posizioni antitetiche su un argomento.
Quando i più giovani incontrano il teatro e i discorsi di cui è portatore, capaci di intrecciare i linguaggi alle estetiche e di arrivare ai cittadini oltre all’arte oratoria strettamente intesa, incontrano una complessità difficile da incasellare, incappano nel dubbio e nell’ignoto, non sempre sanno da che parte stare e se la devono vedere innanzitutto da soli.
Per il 2023 ci piacerebbe portarci dietro la possibilità che la scuola e le sue avanguardie educative possano continuare a vedere nel teatro uno strumento fuori moda e fuori dal tempo, eppure un attuale e valido alleato nella crescita delle nuove generazioni. (Agnese Doria)
Una riga nera al piano di sopra di e con Matilde Vigna
Cosa significa vedere distrutta ogni certezza, sentire di stare perdendo tutto, di non aver alcun appiglio? Un interrogativo che fa da comune denominatore a due linee narrative: le vicende personali di una giovane donna alle prese con i cambiamenti e le scelte della vita; e la storia della sua terra che torna a incontrare – il Polesine – e dei suoi abitanti che nel 1951 hanno affrontato la terribile alluvione. Le due storie e i due piani temporali si intrecciano armoniosamente in un’unica narrazione, raccontata e interpretata sul palco da Matilde Vigna (anche autrice) che, abbracciata a un bonsai, si stringe invano alla speranza di avere il controllo del repentino e travolgente cambiamento. Cinicamente aggrappata alle proprie posizioni e alla sfiducia tanto nel presente quanto nel futuro, resiste con ostinazione al desiderio di stabilità e calore domestico, tanto da non disfare gli scatoloni e non procurarsi un vero letto, continuando a dormire sul materasso “sgonfiabile”. Si manifesta così l’intima e inespressa paura di vedere un altro pezzo di vita costruirsi e infrangersi senza alcun preavviso, ma anche il peso di sentirsi in transito, con una valigia sempre pronta alla ri-partenza alla volta dell’ennesima situazione precaria. Chissà se per scelta inconscia o se costretta dalle circostanze, Matilde “torna indietro” in quella regione che l’aveva cresciuta e dalla quale i sogni l’avevano portata lontano: anche se rifiutato, il Polesine torna ad accoglierla e lei lo incontra con occhi nuovi, ritrovando una parte di sé e sintonizzando le incertezze e le macerie della propria vita con quelle provocate dall’inondazione del ’51. Un genuino e intimo racconto, che prende avvio da un’urgenza narrativa personale senza mai cadere nell’autoreferenzialità, bensì capace di comprendere il sentire di molte giovani donne di oggi e di fare memoria storica di una sofferta e poco conosciuta vicenda locale. Una riga nera al piano di sopra è uno spaccato generazionale che parla al presente e al tempo stesso un affresco documentale di una profonda ferita attraversata da un territorio e dai suoi abitanti, le cui case e vite sono state sommerse da un’acqua così alta da essere arrivata “al piano di sopra”. (Ilaria Cecchinato)
Il Teatro Bellini di Napoli
Quella del Teatro Bellini è una gestione familiare nella migliore declinazione possibile. Daniele, Giuseppe e Roberta Russo hanno aperto le porte del loro teatro a una città che anela spazi, palchi e possibilità come poche altre. Napoli è protagonista della programmazione, dai giovani esordienti che vengono formati nella Bellini Teatro Factory per poi svezzarsi nella splendida sala del Piccolo Bellini, fino ai grandi nomi della contemporaneità, che possono sfruttare la modularità ingegneristica del proscenio per maestose messe in scena (come quella de La Cupa di Mimmo Borrelli). Con la consulenza artistica per la danza di Manuela Barbato ed Emma Cianchi si vuole mettere in mostra anche una traiettoria, che vuole chiaramente privilegiare sia la contaminazione che una progettualità su un lungo periodo. Perfino nella vivacità dell’ingresso, con i vetri colorati dai pennarelli dei giovani spettatori, c’è un’idea di teatro aperto, che sia un luogo dove sostare anche dopo lo spettacolo, in cui quotidiano e teatro si mescolino come già accade nelle vie della città, in un’unica grande festa. (Giuseppe Di Lorenzo)
L’arte della gioia
Il 2022 è quello dell’incontro illuminante con Goliarda Sapienza attraverso un suo meraviglioso romanzo, L’arte della gioia. Una storia di resilienza, di ascesa verso la libertà di essere. Una donna che con pazienza e determinazione costruisce il proprio destino, spinta da una fame insaziabile di conoscenza. L’arte tutta diventa trampolino di lancio, fonte di ispirazione, possibilità di incontro. L’obiettivo è la gioia, che si realizza assecondando il flusso della vita, andando incontro a se stessi. Al 2022, figlio di anni che ricorderemo per la necessità di trattenere gli impulsi vitali e creativi, non posso che rubare l’esempio di una vita che si ribella a ogni segno di intorpidimento e si nutre di continue rinascite. (Nella Califano)
Bloom & Doom
«Questi ragazzi non si stavano ribellando contro la crudeltà o la ferocia. Tutto il contrario, sergente. Quello che non riuscivano più a tollerare era il dispotismo della bontà. Hanno ucciso per ribellarsi dalla tirannia dell’amore parentale». In un breve romanzo dal titolo Un gioco da bambini, J. G. Ballard inscena in un villaggio residenziale a pochi chilometri da Londra un violento eccidio ai danni degli adulti attuato da un manipolo di ragazzine e ragazzini di quel quartiere. L’opinione pubblica e le autorità si rifiutano di incolparli, nonostante di loro a Pangbourne non ci siano più tracce.
Cito questo inquietante libro perché per efferatezza, insolenza, forza e ardire, esso si avvicina a Bloom & Doom, un lavoro promosso dal Collettivo Amigdala e portato avanti durante la quattordicesima edizione di Periferico Festival per le strade del Villaggio artigiano di Modena Ovest da un esercito di bambine e bambini con passamontagna, aiutati dall’artista interdisciplinare indipendente e attivista Caterina Moroni, che ha concepito questa lunga esperienza a cielo aperto ma che non vediamo mai durante l’esito aperto al pubblico. In quest’azione itinerante, immaginata per una decina circa di persone alla volta, ogni spettatore è stato chiamato a seguire mano nella mano una piccola guida, restando un passo indietro, accordandosi alla sua andatura e alle sue decisioni e abbandonandosi alle sue indicazioni come in balia di una tempesta. Eccetto una scritta sull’avambraccio di ogni protagonista, “SEGUIMI”, e una parola, segreto indicibile, bisbigliata all’orecchio di ciascuno spettatore nella conclusione, un silenzio greve domina il tragitto urbano, contraddistinto da piccole azioni eversive e ricreative. Superiamo attraversamenti pedonali, ci muoviamo in una stanza vuota di un appartamento sfitto, rivestita sulle pareti con figurine di animali totem, ci lasciamo alle spalle l’antro di un garage colmo di scatoloni e oggetti, ci sporgiamo su un guardrail metallico dopo un’arrampicata per guardare le auto in corsa, sperimentiamo la tecnica a stencil per colorare davanti a una schiera di garage. «Più piccolo è il bambino, più i suoi occhi sono vicini al terreno», scriveva Colin Ward. Bloom & Doom interroga il mondo dei grandi, gli spazi delle nostre città collassati attraverso le forme, le azioni, il pensiero, i simboli e il gioco dell’infanzia. (Damiano Pellegrino)
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.