Il dialogo tra una madre e il suo feto è quanto di più intimo si possa vivere; le dinamiche di formazione delle stelle all’interno delle galassie è quanto di più impersonale si possa immaginare. Di questo stiamo parlando. La fisica trattata in modo divulgativo che si alterna e compenetra con un dialogo sulla relazione più importante che si abbia nella vita: il tutto, che gira attorno alla questione della vita stessa. La vita intesa a livello cosmico e a livello individuale, personale. Già questa struttura, che qui si tenta di schematicamente di tracciare, allude alla complessità di intenti di un testo come quello del Magnificat di Moresco. Che al di là dei gusti personali (finalmente messi tra parentesi) è un autore di spessore, che si prende la libertà di una scrittura a tratti barocca, già di per sé quindi contraddittoria rispetto al minimalismo che va per la maggiore. È a questo punto quindi che il gusto personale si sospende, perché le questioni stesse che l’autore in generale (e questo testo in particolare) sollevano vanno ben oltre a faccende di puro gusto. Il tutto poi cambia ulteriormente e assume ancora un altro significato nel momento in cui il testo non viene letto privatamente, ma incarnato da una giovane attrice che non si risparmia per un solo momento. Elisa Pol dà prova di una generosità che supera la bravura, una intensità che non riguarda la pura capacità tecnica o il solo talento (due realtà che la direzione esigente di Lupinelli valorizza sapientemente): siamo davanti a un corpo offerto senza sconti, e di questo evento – sempre più raro – dobbiamo essere grati. La regia lavora sul vuoto e sul buio nella loro contraddizione di essere qualcosa che si riempie con la presenza e si rende reale con la luce: siamo dentro un utero violento, misterioso, inspiegabile. Come lo è l’universo, come lo è il segreto sotteso alla nascita di tutte le cose (tra cui noi, con la fatica e la domanda che segnano la nostra stessa nascita). Un’ora offerta al nostro vivere che porta tutti i segni di un intenso lavoro di mesi, uno spettacolo che mostra la maturazione di un tempo dedicato, qualcosa di non tirato via, né frettoloso. Un lusso, direbbero molti artisti; una necessità, risponderebbero molti spettatori. Lupinelli si mette di lato e da lì la sua prospettiva sembra, anche se più faticosa, in un certo senso più libera, esigente e mai accondiscendente. Qualcosa di cui c’è grande bisogno oggi, e che forse può per questo risultare a molti disturbante. Ma l’arte non ha da essere comoda, e per tale ragione questo spettacolo, che mostra di sapere tale verità, è un atto di rispetto verso chi lo guarda. Ci si augura che ci sia dunque occasione di vederlo spesso, nelle talvolta fiacche e codarde programmazioni invernali.
Azzurra D’agostino
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.