Assistiamo alla nascita di un vero e proprio fenomeno, quello del teatro in streaming, accolto non senza perplessità. Il bisogno di artisti e operatori di diffondere la cultura servendosi di ogni mezzo a loro disposizione, con l’amara consapevolezza che questi non potranno mai sostituirsi al carattere fisico ed esperienziale del teatro, ha incontrato lodi e critiche da chi, da un lato, considera in questo momento storico più che mai necessaria la creazione di una rete artistica e culturale attiva e prolifera, e chi, dall’altro, sostiene l’esigenza, per il teatro così come per ogni attività sociale, di fermarsi e riflettere su se stesso, anziché disperdere tutte le sue energie in un movimento centrifugo che rischia di proporre al pubblico una quantità di materiale confusa ed eccessiva.
«Una piccola e sentita testimonianza. Un modo rispettoso di esserci per la comunità e con la comunità, in un momento così delicato. Un invito a ricordare che, anche se ai margini, il teatro c’è – e si ostina a insegnarci ad essere-per-gli-altri»: con queste parole ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione annuncia, il 10 marzo, la prima delle tante letture in streaming a opera degli attori della Compagnia permanente di ERT Fondazione. Una visione forse troppo ottimistica nell’attribuire a quest’operazione finalità educative, ma che risponde alla volontà di non abbandonare a se stessa una comunità di spettatori e attori attiva e consolidata sul territorio emiliano.
“Essere-per-gli-altri”: ma chi sono questi “altri” ai quali il teatro in streaming si rivolge con tale impeto filantropico? Di certo non spettatori nuovi, sui quali il fascino dello spettacolo dal vivo non ha mai attecchito e di certo non attecchirà la sua versione tecnologicamente mediata. Di certo non chi, in questo momento, vive un momento di malattia, isolamento, abbandono o lutto, per il quale quest’esplosione “non richiesta” di dirette video e audio si traduce in un chiacchiericcio appena udibile, così lontano da una realtà quotidiana terribile e, prima di oggi, inimmaginabile.
Scrive il 30 marzo sulla sua pagina Facebook Massimiliano Civica: «Mi sembra, infatti, che tutti questi tentativi di surrogare il teatro dal vivo attraverso streaming e dirette Facebook sia soprattutto fatto da teatranti per i teatranti: siamo in maggior parte noi teatranti che abbiamo bisogno di continuare a vivere il teatro, siamo noi stessi teatranti i maggiori (e permettetemi di dire, numero di visualizzazioni alla mano, quasi i soli) fruitori di questa ondata di teatro in video. Ci incontriamo tra di noi in video come prima facevamo nei festival, nelle rassegne, nelle sale».
Se è vero – come è vero – che queste iniziative si rivolgono unicamente ai membri di una nicchia già consolidata, è anche vero che all’interno della stessa le opinioni non potrebbero essere più divergenti. Innumerevoli gli artisti che si sono espressi in merito, e una parsimoniosa raccolta di chi-ha-detto-cosa in questi giorni di quarantena sarebbe impossibile e probabilmente inutile. C’è chi, come la coppia Frosini/Timpano, ripropone i propri spettacoli d’archivio online nella serie #INDIFFERITA, ma senza risparmiarsi commenti critici su quest’operazione: «il teatro in video è una cagata, lo sappiamo bene, anzi non è teatro, è solo un resto, ma quel che ci resta in questi tempi mesti son questi umani resti» scrive Daniele Timpano sul proprio profilo Facebook il 13 marzo, per poi precisare, in data 8 aprile: «Come compagnia e come cittadini abbiamo pensato che fosse importante fare un atto di testimonianza dell’esistenza del teatro, della sua essenza fisica, corporale, compresenza di attori e spettatori, della sua forza potenziale di elaborazione di pensiero etc, tutte cose in cui crediamo molto. Piuttosto che leggere dei testi o fare dei pezzetti in streaming dal salotto di casa abbiamo pensato fosse più adatto, ed anche più struggente, a rendere la forza perduta del teatro, presentare delle opere, in video certo, ed il video è documento e resto, non teatro, ma opere, opere complete, con una loro idea di spazio, delle luci, degli attori, un pubblico che si intuisce o sente presente in sala guardando queste immagini riprese. Degli spettacoli cadaveri (perché lo spettacolo dal vivo è vivo solo dal vivo) ma degli spettacoli, non una cosa raffazonata e casalinga, ma cose che ricordino, per contrasto, il live perduto, nella sua perduta unicità e nelle sue qualità specifiche».
Ma c’è anche chi, dalle compagnie ai teatri-istituzioni come il Piccolo Teatro di Milano, decide di non abbandonarsi alla “febbre da streaming” di questo periodo. Il 21 marzo, sulla pagina Facebook della Compagnia Licia Lanera, viene pubblicato questo annuncio, con un accorato sguardo proiettato sul presente e la consapevolezza del rischio della dimenticanza: «Cari amici, in questo momento strano e complicato, la nostra compagnia ha deciso di fare una pausa e di rimanere in silenzio ad osservare il mondo. Torneremo a fare il teatro, l’unica cosa che sappiamo fare. Con lo stesso ardore di prima, ma pure un po’ diversi. Speriamo di poter tornare presto a recitare, a fare i laboratori, a guardare spettacoli, a provarne di nuovi. Intanto, se potete, non dimenticateci e prendetevi cura di voi».
Il dibattito in corso passa ben presto dalle pagine Facebook di artisti e operatori alle principali testate, in una lunga e animata discussione tra due gruppi, i “silenti” e i “presenzialisti”, come definiti da Enrico Piergiacomi in una lucida analisi e riflessione sul fenomeno: «Chi difende la necessità del silenzio invoca la delicatezza dei tempi in cui viviamo, la complessità dell’emergenza e la constatazione che esistono priorità più urgenti del teatro su cui riflettere. […] I presenzialisti fondano invece la loro idea sul bisogno di trovare un second best allo spettacolo dal vivo e di pensare a un modo per continuare, sia pure inadeguatamente, a coltivare l’arte del teatro, ad entrare in un rapporto con un pubblico distante ma ancora desideroso di essere attraversato dalla poesia della scena, a proporre contenuti per riflettere e agire quando si sarà fuori dall’emergenza».
“Bulimia da streaming” la chiamano Salvatore Papa e Lucia Tozzi in un articolo su zero.eu, definendo quest’esplosione di iniziative telematiche «frenetica quanto fallimentare». In un articolo su Doppiozero dal titolo Con streaming e radio #ilteatrononsiferma? Massimo Marino raccoglie le voci di alcuni critici e artisti del settore che alimentano in questi giorni il dibattito sul teatro in streaming, unanimi nel denunciare l’inadeguatezza dei mezzi tecnologici ma, allo stesso tempo, il bisogno di non lasciare soli gli spettatori, di fare, di non fermarsi. Sul versante opposto si pone l’editoriale di Franco Acquaviva pubblicato su Pangea, che citando Cinghiali al limite del bosco di Giuliano Scabia propone alla «montagna-teatro» di adottare la «tattica del cinghiale: silenti, immobili, invisibili» per esplorare l’immobilità di queste settimane «trovando un altro movimento, un movimento dell’interiorità». C’è anche chi, come Andrea Porcheddu nell’articolo Il teatro fatto con i libri pubblicato su Gli Stati Generali, trova un’alternativa allo spettacolo dal vivo non nello streaming ma nella letteratura teatrale e segnala ai lettori tre ritratti di «uomini di scena» per «respirare un po’ di più, un po’ meglio, guardando al passato per pensare con maggiore lucidità a dove andare nel futuro prossimo». Lo stesso Porcheddu, a distanza di qualche settimana, torna sull’argomento con un articolo che, ancora una volta, ci ricorda che il teatro è piazza, incontro fisico tra corpi, rilevando nelle operazioni virtuali non solo l’inadeguatezza del mezzo ma anche, e soprattutto, «un presentismo, un senso d’obbligo morale, un dilagante e pregiudiziale entusiasmo» unito alla «colpevolizzazione di chi – come me semplice utente, o anche come tanti artisti – non si sente di mettersi alla pari, di entrare nel gioco della virtualità». Ma questa difesa a spada tratta del sacrosanto diritto di fermarsi e di non «entrare nel gioco della virtualità» rischia a sua volta di tramutarsi in una colpevolizzazione di chi, aggrappandosi agli unici strumenti che ha a disposizione e senza voler in alcun modo equiparare lo streaming allo spettacolo dal vivo, continua a mantenere i contatti con i propri spettatori.
Non tarda ad arrivare la risposta di Andrea Pocosgnich, che il giorno seguente in un articolo su Teatro e Critica scrive: «Forse pretendiamo un po’ troppo dagli artisti del mondo teatrale, soprattutto in questo momento. Certo parliamo di un settore che ha dimostrato un tasso di eterogeneità tale da incappare spesso in una evidente incapacità di far fronte comune, dunque ben venga lo sprone della coscienza politica; ma non vedo il nesso tra l’assenza di questa e il fenomeno della creazione dei contenuti per il web. Parliamoci chiaro: è urgente iniziare a chiedere risposte sulle fasi successive, sulle riaperture delle sale, ma se alcuni teatri non dovessero riaprire, se a colpi di decreti il governo dovesse rendere difficile il prosieguo delle attività, se dopo questa pandemia compagnie, singoli e strutture falliranno non sarà certo colpa delle attività “in streaming”».
Qualche giorno prima, Viviana Raciti denunciava il rischio di generalizzazione in seno a un dibattito che ha assunto spesso caratteri assolutistici, in quanto «la condanna di qualsivoglia iniziativa, che non tenga conto, caso per caso, delle motivazioni e degli obiettivi posti a monte, rischia di tralasciare anche gli esperimenti sensati». Non aut-aut, streaming sì o streaming no, dunque: della stessa idea Andrea Pocosgnich che, nell’articolo sopracitato, propone di superare la sterilità sulla quale si è cristallizzato il dibattito per «entrare nel fenomeno sondandone gli aspetti peculiari», per analizzare un’attività che «di certo non ha quel valore comunitario fondamentale del teatro caratterizzato dalla compresenza, ma può avere un’importanza culturale e storica».
Mentre artisti, operatori e spettatori cercano di nutrirsi di teatro in tutte le modalità e forme rimaste, l’amara ironia della sorte ci conferma, in uno studio pubblicato sulla rivista specializzata Scientific Reports il 2 marzo, quello che infondo già sapevamo: durante gli spettacoli dal vivo il cuore degli spettatori batte all’unisono. Questo non significa certo che sia giusto demonizzare ogni altra operazione performativa che non prevede la compresenza di attori e spettatori, laddove questi stessi esperimenti digitali o radiofonici, se portati avanti in tempi non sospetti e parallelamente al teatro tradizionalmente inteso, sarebbero stati accolti dalla comunità con un interesse e un’apertura mentale maggiori. Un esempio tra tutti è rappresentato da Radio India, il palinsesto radiofonico nato all’interno del progetto Oceano Indiano concepito dalle compagnie residenti al Teatro India: come raccontato da Francesca Corona nella videochiamata Instagram con Simone Pacini all’interno della serie Amukina mon amour, la volontà di sperimentare le pratiche performative attraverso il mezzo della radio nel progetto Oceano Indiano risale a ben prima dell’emergenza Coronavirus.
«Io e buona parte della comunità teatrale siamo accanitamente impegnati a discutere i pro e i contro degli spettacoli teatrali in streaming, con accesi dibattiti, scambio di lettere aperte, critiche e contro critiche. Ricorda, per l’impatto che ha sulla società e sull’interesse della collettività, le appassionate discussioni di una cerchia di hobbisti entomologi in merito a come classificare una nuova farfalla della loro collezione»: queste poche righe, pubblicate da Massimiliano Civica sul suo profilo Facebook l’8 aprile, ci sbattono in faccia il muro della realtà. Laddove il teatro potrebbe – e dovrebbe – assumere una centralità nella sfera sociale e politica del contemporaneo, l’impatto con un’inaspettata pandemia globale dalle conseguenze imprevedibili lo vede scivolare nello sterile campo dell’autoreferenzialità. D’altronde, come visto, la stessa discussione in corso ha cominciato a spostarsi dalla necessità o meno di fare teatro in streaming alla necessità o meno di fare un dibattito sul teatro in streaming. E forse presto si sposterà sulla necessità o meno di fare un dibattito sul dibattito sul teatro in streaming, e così via. Per uscire da questo “labirinto di Dürrenmatt” sarebbe dunque auspicabile da parte del giornalismo culturale l’assunzione di una responsabilità, il farsi mediatore tra un pubblico e un panorama tecnologico-culturale estremamente variegato che in tempi brevissimi ha visto spontaneamente la luce. Se il bisogno di approfittare di questo momento di pausa per riflettere sulle prospettive future del teatro si fa sempre più forte, quando torneremo nelle sale gremite di spettatori ricordiamoci di quelle iniziative di valore che, nate in risposta a un’emergenza, con la stessa velocità rischiano di essere dimenticate.
Valeria Venturelli
]]>L'autore
-
Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.