L’attore sta al teatro come Riccardo sta al regno, un’equazione esplosiva che risulta in un aggressivo e spregiudicato cinghiale. Calderón dà in pasto a Francesco Montanari un copione viscerale, che l’attore vomita ferocemente addosso al pubblico. Gli intima di masticare due storie connesse e intrecciate, quella del Riccardo III e la sua, attore mai valorizzato che quando finalmente ottiene il ruolo tanto auspicato come protagonista shakespeariano, si trova in una compagnia incapace, su cui riversa tutto il suo odio. Per aggiungere complessità, Montanari inserisce episodi della propria vita privata e porta in scena Riccardo ispirandosi al comportamento e alla ferocia dell’animale che dà nome allo spettacolo. In Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III (Teatro Studio Melato, 14 marzo-6 aprile) l’aspirante re diventa un attore che uccide a parole tutto ciò che il suo sguardo e il suo pensiero toccano, per poi chiedere alle vittime, gli spettatori, di masticare le sue parole per ricucirsi le ferite che ha provocato. Inveisce contro la loro scarsità di letture e mancanza di cultura. Accusa loro di non conoscere, di non informarsi; gli attori di essere inetti, di non saper recitare. Non risparmia nemmeno Anita, l’attrice che è arrivata sin lì solo per la sua innegabile bellezza, che pure gli dà lo spunto, con un briciolo di talento, per recitare Lady Anne.
Quest’attore misogino e tremendamente sincero, infatti, pur odiando le attrici che lo circondano, ne invidia le parti e sceglie fra i monologhi quelli delle donne. Al centro della scena, dentro al teatrino di legno a tendaggi verdi che fa tutta la scenografia, su un trono fatto di tronco, parla Margaret, la vecchia regina Lancaster a cui gli York hanno sterminato l’intera famiglia. È un cespuglio di capelli gialli, crespi e rigogliosi, una donna a cui il volto è stato succhiato via dall’odio verso quel Riccardo su cui riversa parole che sono degne dello stesso usurpatore. Montanari le dà una voce virile, la cui temperatura aumenta a ogni insulto, fino ad arrivare a tonalità cavernose. Dalla profondità in cui è scesa, si fa strada con le mani fra i capelli fino a scoprire unicamente la bocca, che grida come un animale l’ultimo spergiuro.

Poi Lady Anne, più pacata e femminile, che cova in seno l’umiliazione di un ripudio. Infine la madre di Riccardo, del cane di cui ha visto la tenerezza infantile trasformarsi in una bestialità contagiosa. È lei stessa, infatti, a trasformare il suo abito regale in un peloso e gigantesco mostro delle nevi, che ha su Riccardo l’ultima parola. Lei unica lo affronta dall’alto al basso, statuaria in posa e parole, donna su cui grava la colpa più grande, quella di avere dato i natali a un figlio che ora ripudia.
Il Riccardo di Calderón è niente senza quelle donne a cui ha distrutto la vita. Loro ora distruggono la sua immagine ma pagano il prezzo di trasformarsi in bestie come lui. Qual è quindi la condanna di questo Riccardo? È colpevole di trasformare gli uomini in cinghiali, o forse, a forza di metterli crudelmente alla prova, di tirare fuori l’animalesco che è già dentro ciascuno? Ha commesso crimini terribili, ma l’atrocità e l’efficacia delle parole con cui gli altri personaggi lo incatenano alla storia come uomo senza umanità, sono loro, non sue. L’attore, alla fine, provato dalla suo stesso odio, contagiato da quel Riccardo di cui ha preso l’aggressiva mancanza di scrupoli, si acquieta. La foga con cui ha conquistato e tenuto con maestria lo spazio scenico, si affievolisce. Vinto dalla delusione dei mancati fondi che avrebbero dovuto sostenere la compagnia, trascina via il teatrino con le corde che lo abbracciano, sente tutto il peso di quel suo regno. Trasformato in ombra, a luci quasi spente, chiede implorante di potere fare l’attore, solo l’attore, come faceva Shakespeare con la sua compagnia: Teatro nonostante tutto. Chiede pietà. Anzi no, niente pietà, solo uno spettatore intelligente per il suo regno.