La prima cosa che si nota, dopo le le ciminiere dell’Ilva, entrando nei dedali di viuzze del centro storico, osservando i palazzi fatiscienti di una “Taranto vecchia” che volendo restaurarla diverrebbe un gioiello, la prima cosa che si nota dopo queste e altre cose è il mare. Mare tutt’attorno però “impraticabile”, circondato com’è dal porto industriale e dalle acciaierie.
Startup Teatro è un coraggioso progetto che nasce e si sviluppa a Taranto, nella Puglia cha ha saputo far tesoro come pochi in Italia dei fondi europei di sviluppo regionale. Nasce grazie alla volontà del Crest, storica realtà teatrale della città, con la direzione artistica di Gaetano Colella e la collaborazione della rete di residenze “Una net”. Il sottotitolo recita “Generazioni tra le macerie”: spettacoli che spaziano con disinvoltura fra teatro, danza e performance, ma anche incontri per fare il punto sul mercato teatrale e sulle residenze. Sarebbe bello poterle riconoscere, le macerie. Vorrebbe dire che il crollo è avvenuto, significherebbe che non resta che provare a ricostruire. Invece di macerie se ne vedono, paradossalmente, “troppo poche”, convinti come siamo di navigare fra difficoltà che supereremo, chi stringendo ancora di più una cinghia sull’orlo di spezzarsi, chi sgomitando per preservare i propri privilegiati contratti foraggiati da soldi pubblici.
“In questo luogo desideriamo raccontare un teatro in grado di dialogare col pubblico”, diceva venerdì sera Colella aprendo il festival. E in quel “desiderio” potrebbe stare la chiave con cui guardare ai luoghi e alle loro evoluzioni. Siamo nel quartiere Tamburi, a ridosso dell’Ilva, quartiere esposto alle polveri del piu’ grande centro siderurgico d’Europa, nella città più inquinata d’Italia. Cosa cerca un teatro che nasce qui? Cosa chiede ai cittadini, e cosa si chiede? Per prima cosa, e ci sembra già molto, non è un teatro che festeggia: non ci sono aperitivi in foyer luccicanti, non ci sono dj set. Sembra invece esserci appunto il desiderio, la fame di vedere, forse di capire. Allora vale la pena, per una volta, provare a raccontare le opere con la lente del luogo che le ospita, in cerca di risonanze in grado di parlarci dell’oggi. Appunti di un diario in vista di discorsi più complessivi.
La danza di Virgilio Sieni sembra il giusto prologo per un festival siffatto, con i corpi delle sue quattro signore a intrecciarsi per ricostruire un’umanità smarrita, con quattro sedie e fazzolettini bianchi immacolati che transitano di mano in mano, una gestualità che evoca simbologie di cure, di unioni ricercate nel cuore della città vecchia (Visitazione Taranto, presentato all’ex Caserma Rossarol).
Ci si sposta al TaTÀ, auditorium al rione Tamburi in gestione al Crest dal 2009 grazie al progetto regionale Teatri Abitati. Rock Rose Wow di Daniele Ninarello è una partitura per tre corpi su un fondo elettronico ritmico, tre figure a dispiegare idioletti gestuali che non paiono tra loro comunicare. Nel trovare una sincronia coreografica lo spazio si concede un maggior disegno, sembra in grado di “respirare”, ma poi torna a chiudersi in progetti corporei individuali che si spingono verso il tic, la trance della ripetizione. L’inquietudine sottotraccia ribolle e pare possa lasciare qualcosa, se sapra’ andar oltre le sensazioni, le folgorazioni immediate.
Mario Perrotta entra quando il pubblico è già assiepato nella seconda sala del TaTÀ, chiedendo un bacio, Un bès, ai presenti. La voce si trascina in un impastato dialetto emiliano, la postura si disarticola per seguire le accensioni del protagonista, il suo destino di genio del disegno e di scemo del villaggio. Fogli verticali si riempiono di filiformi sagome disegnate dal vivo: una figura femminile, i contorni di un paesaggio. Così Mario Perrotta diviene il pittore Antonio Ligabue: senza interpretarlo, ma facendo in modo che il teatro sappia farsi carico di una storia. Perrotta riesce a manifestare di fronte a chi guarda un personaggio, come se Ligabue fosse lì di persona, come se il pittore si potesse presentare al pubblico. Una sospensione dell’incredulità che appartiene ormai a un teatro “classico”, e per questo oggi così difficile da fare accadere.
Tornando nella sala grande, pathosformel mostra un progetto i cui presupposti teorici sembrano destinati a lambire sempre il fallimento degli esiti. Studiando il principio della competizione nella natura (anche dopo averne misurato gli effetti in installazioni e laboratori questa estate a Santarcangelo), accade che sul palco di T.e.r.r.y. restino una teoria di neon che alternatamente mutano intensità e alcuni macchinari su ruote la cui altezza occupa l’intero boccascena. Le macchine, come grandi vasi, ospitano al loro interno materie vegetali di varia natura e si muovono apparentemente senza l’intervento umano, incrociandosi nello spazio e lasciando chi guarda nel completo spaesamento. Esito da non trascurare di un percorso a cui gioverebbero probabilmente eventi di accompagnamento (incontri? tracce del processo di lavoro?).
(foto tratta da articolo di Anna Luciani-Itinerari e luoghi)
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.