“Nostra patria è il mondo intero”, cantava l’anarchico Pietro Gori più di un secolo fa, “…e nostra legge è la libertà”. Partiamo da lontano, mentre i giochi senza frontiere con ambizioni europeiste sono un ricordo analogico e i confini tra paesi e continenti sembrano farsi minacciosamente netti e definiti. Partiamo da lontano, per raccontare di un teatro internazionale che si sta affermando in questi ultimi anni e per capire quali sono gli elementi di novità.
Con questa rubrica si guarda alle realtà che sono cresciute nel nostro secolo, artisti trentenni e quarantenni, di cui ci interessa comprendere meglio gli elementi di cambiamento e di rottura. E soprattutto ci interessano le contraddizioni che rappresentano. In Italia si dice spesso che non è un problema di generazioni, l’età non conta e che il discorso è un altro, sempre un altro. Un concetto ripetuto fino allo sfinimento e più di una volta in modo strumentale. Invece no. Siamo convinti che per scavare un po’ di più e togliere la polvere a questo presente cannibale bisogna porsi un problema anche generazionale.
Per capire qualcosa in più di questo mondo assurdo bisognerebbe guardar meglio dentro quel che accade tra i più giovani, in Italia e nel mondo. Il teatro è la nostra piccola lente, fiduciosi che ancora sia un’arte capace di circoscrivere un campo e ingrandire i dettagli. Ecco che il nostro ciclo guarda agli artisti o ai gruppi di teatro contemporaneo (lasciando oscillanti i termini anagrafici: non siamo un “bando” a cui partecipare), che operano in paesi completamente diversi. Cosa significa avere 35 anni in Libano, in Belgio o in Cile? Quali le differenze, le similitudini e cosa c’è di “nuovo” nelle domande e nelle proposte di chi è cresciuto durante l’esplosione della globalizzazione, il crollo del muro di Berlino, la diffusione del terrorismo islamico, l’ascesa e il declino dell’utopia europeista, la grande crisi economica internazionale? Proviamo a raccontarlo due volte al mese, il lunedì, sempre a partire da uno spettacolo. Buona lettura e “… un pensier ribelle in cor ci sta”.
La prima volta che sono venuti in Italia è stato al Festival di Santarcangelo nel 2014, con La imaginación del futuro, e fecero scalpore. Sono tornati quest’estate, invitati dal Napoli Teatro Festival, ed è stata un’ottima occasione per conoscere il loro ultimo lavoro, La dictadura de lo cool. Teatro La ReSentida è un gruppo giovane cileno, nato nel 2008, residente a Santiago e composto da sette persone, guidate dal regista e drammaturgo Marco Layera. Insieme, per adesso, hanno realizzato quattro spettacoli, uno ogni due o tre anni. Nel giro di poco tempo La ReSentida ha superato i confini nazionali e continentali ed è oggi ospitata dal Festival di Avignone e prodotta dal prestigioso Hebbel am Ufer di Berlino. Tra le compagnie, i registi e gli autori cileni che regolarmente frequentano l’Europa La ReSentida è l’ultima arrivata, ma merita di essere seguita per almeno tre motivi.
Il primo, si può dire, è di carattere storico-culturale. Se la storia del Cile ha moltissimi intrecci con le vicende del nostro paese, e se è cosa nota che tanti cileni furono ospitati e sostenuti dai movimenti italiani, durante la dittatura di Pinochet, e che i rapporti tra democrazia cristiana e partiti di sinistra hanno molti elementi in comune (come spiega Raffaele Nocera nel recente Acuerdos y disacuerdos. La Dc italiana el PDC cileno 1962-1973), è altrettanto vero che, in tempi recenti, i contatti si sono allentanti, anche per quello strano effetto di chiusura e di provincialismo, provocato inaspettatamente dalla globalizzazione. Per fortuna il Cile ha scrittori e registi di grande valore, che tengono viva la memoria di un paese pieno di ombre, di segreti, di violenze. Per il cinema vengono in mente Patricio Guzman, Raul Ruiz, scomparso pochi anni fa, Alejandro Jodorowsky… Per la letteratura giganteggia Roberto Bolaño, “scoperto” in Italia solo di recente, ormai punto di riferimento, postumo, per la letteratura del nuovo millennio.
Il primo motivo di interesse è perciò storico-culturale, riassumibile in una domanda apparentemente semplice e scontata, replicabile anche per altri contesti: che cosa sta succedendo in Cile? Porre delle coordinate storico-geografiche quando si pensa al teatro, e in particolare al teatro straniero, sembra un’operazione ovvia, eppure spesso viene elusa, un po’ perché si è spesso reverenti alle logiche strutturali dell’“opera” in sé, che pretende autonomia dal contesto di provenienza e dipendenza solo da teorie estetiche; un po’ perché spesso vi è una tale omologazione nelle proposte del circuito internazionale, che la provenienza geografica è tutt’al più un colore, un clima, ma non una nota decisiva, almeno all’apparenza. Eppure dovrebbe essere ormai assodato che quando si parla di “storia” e di “geografia” si intende naturalmente anche l’evoluzione dei linguaggi, degli strumenti, delle forme, e non solo dei temi e dei contenuti. Teatro La ReSentida racconta di un Cile in movimento, attraversato da numerose manifestazioni studentesche e giovanili, che esprime una volontà di cambiamento e di sostegno per le minoranze etniche, religiose e sessuali. Ma il giovane gruppo racconta – nei suoi quattro spettacoli – anche del conflitto crescente che si innesca tra le spinte libertarie e la colonizzazione del neoliberismo il quale, nei paesi sudamericani, ha effetti violentissimi, dalle privatizzazioni delle scuole e della sanità, all’egemonia di una borghesia cattolica e conservatrice. Viene fuori un paese che fa i conti, nonostante le contraddizioni, con un benessere più ampio e l’arrivo prepotente di quella che chiamiamo noi, ormai da tempo, “società dei consumi”.
Il secondo motivo è di carattere sociologico. Teatro La Resentida è un gruppo composto da attori trenta-trentacinquenni. È la prima generazione cresciuta, di fatto, dopo la dittatura di Pinochet, cioè durante gli anni della concertazione, un periodo di pacificazione complessa, di luci e di ombre, nel quale si è avviato quel processo, sempre difficile, di ricucitura sociale di un paese, tra confessioni e reticenze, riti e celebrazioni. Fare i conti con la propria Storia è difficile, soprattutto se la Storia recente è segnata da un colpo di stato sanguinoso e terribile, da torture, rapimenti, sparizioni e tanti esili. In questi ultimi anni la produzione culturale cilena ha raccontato spesso il periodo della dittatura e le vicende tragiche di Allende. Quasi un pensiero fisso, ossessivo.
Seguire il punto di vista della generazione post-dittatura è perciò sociologicamente molto importante (così come, pur nelle evidenti diversità, è interessante seguire le vicende delle aree ex-sovietiche), perché vuole dire porsi una domanda sulle ideologie novecentesche, sul crollo della dittatura, ma anche sul disorientamento e sull’esaurirsi della spinta utopica della “sinistra”, almeno come la si è intesa per mezzo secolo. Crescere dopo gli anni Pinochet ha voluto dire comunque crescere anche dopo la caduta del Muro di Berlino, dentro i primi flussi della globalizzazione, con un mondo intero in rapida trasformazione. Per questa serie di motivi è forte il senso di “inizio” che si avverte osservando i lavori del Teatro La ReSentida. La ricerca di nuove strade è però un gesto che implica un confronto, anche spietato, con le generazioni precedenti. Ed è questo senz’altro un motivo di grande interesse. Anche perché la critica crudele, impietosa e a suo modo disordinata si muove non alla classe dominante, destrorsa e reazionaria, ma all’ala più vicina della sinistra, all’ideologia a cui nonostante tutto si dice di appartenere. Ecco che la critica diventa sempre occasione per compiere un processo di autocritica e di analisi dei propri “padri”, i più vicini: “Obbediamo a un’eredità culturale (filosofica ed etica) che a quanto pare non corrisponde più con la realtà dei fatti”.
In Tratando de Hacer una Obra que cambie el Mundo (El delirio final de los últimos Románticos) si parte da vicinissimo, cioè si parla di teatro, e poi di politica. Si parte appunto della convinzione che per molti decenni ha contraddistinto le avanguardie teatrali sulla necessità di un’arte impegnata capace di incidere socialmente e politicamente. Ma se cambia il “Potere”? Se improvvisamente il “nemico” non è più facilmente individuabile, come reagirà il teatro e tutta l’arte che dell’opposizione e della resistenza ha costruito la propria estetica? In altre parole si potrebbe anche dire: che tipo di teatro c’è bisogno, con la fine della dittatura, in una fase di profonda crisi, trasformazione, concertazione? Qual è il teatro “politico” all’altezza di queste domande?
Senza costruire teorie, ma rivendicando e ribadendo un punto di vista mobile, e non liquido, che evidentemente cerca il conflitto, anche generazionale (attività inedita in Italia), Teatro La ReSentida con un certo coraggio e buona dose di generosità si butta a capofitto nella propria contraddizione, seguendo una dinamica fortemente distruttiva, ed è questo il terzo punto, più artistico, di grande interesse.
Il linguaggio teatrale della compagnia cilena ha una carica distruttiva rara, che sfiora il nichilismo, sa farsi cinica e sprezzante. È molto fastidioso procedere con ritmo così dissacrante, eppure l’operazione non è mai gratuita. Nemmeno quando l’icona di Salvador Allende viene gettata nella centrifuga del postmoderno. La dissacrazione teatrale in atto è densa di ironia, di spirito grottesco e di una certa disperazione, ed è proprio ciò a tener lontano il vortice teatrale dai compiacimenti estetizzanti. La vis destruens pare il metodo disperato di una generazione per trovare strade nuove e ricostruirsi i propri miti e modelli, un passaggio necessario, ma ambiguo. Anche il linguaggio teatrale allora si fa distruttivo rispetto alle dinamiche più rappresentative e alle drammaturgie più narrative. La scena continuamente procede per microcostruzioni e successive distruzioni, con un susseguirsi a volte incongruente, a volte per accostamenti abnormi. Non si fugge dal teatro, al contrario si mescola la tradizione cilena e latino americana, fortemente legata all’attore, al testo, alle grandi emozioni, con le dinamiche più moderne e smaliziate di smontaggio della rappresentazione e delle relative emozioni. Ne viene fuori un teatro ibrido, meticciato, capace di mescolare la ricerca di un impatto visivo a un testo spesso debordante, fortemente ironico e sempre tragico; di utilizzare attori che sanno essere esuberanti e atletici, e al contempo repellenti e diabolici; di costruire “personaggi” e continuamente dissacrarli in una dinamica attore-personaggio vivace e non concettuale; di realizzare scenografie che sanno essere di grande impatto, pur poggiandosi su idee semplici; di credere nel teatro e riuscire a piegare altri linguaggi alle logiche della teatralità e sapendoli mescolare (dal teatro di figura alla performance, cinema, danza, reality, videoclip…); di avere un’energia fortemente “giovane” che è la spinta che permette di essere seguiti anche là dove le incongruenze e il disordine politico si fanno eccessivi.
La dictatura de lo cool si muove sulla scia degli ultimi due lavori, con i quale potrebbe comporre una sorta di trilogia sulle grandi contraddizioni di oggi. Prima l’utopia per un teatro capace di innescare la rivoluzione, che si scontra però – negli anni della concertazione – con l’arrivo di un nemico nuovo, più difficile da definire e da combattere (il mercato, la dittatura del denaro…); poi la dissacrazione della storia cilena che ha trasformato i suoi eroi in santini innocui e piatti, inghiottita dalle dinamiche violenti e spettacolari della televisione; infine la critica spietata a quella classe sociale che i francesi chiamano i “bo-bo”, cioè bohémienne-bourgeoise. Ed è questo appunto il tema dell’ultimo spettacolo, nato dall’invito di Hebbel am Ufer di Berlino a partecipare al centenario della nascita di Peter Weiss, ispirandosi alla sua “estetica della resistenza”. Lo stesso regista Marco Layera racconta che, se all’inizio l’intenzione era quella di narrare dei movimenti cileni, come la lotta del popolo Mapuche, le rivolte degli studenti etc., presto l’analisi si è inevitabilmente spostata sulla propria classe sociale, cioè su quella “giovane” borghesia che vuole “umanizzare” il capitalismo, approfittandosi dei nuovi diritti acquisiti, ma lasciando poi alle regole del consumo decidere l’ordine della realtà. Ecco allora che La dictatura de lo cool vuole essere uno specchio distorto di quello che siamo, una borghesia progressista e intellettuale, con pretese artistiche e sempre creativa, critica del capitalismo, ma del tutto integrata. Si inizia rappresentando la festa – con alcuni spettatori coinvolti sul palco come invitati – che un gruppo di amici (artisti, creativi, pubblicitari…) hanno organizzato per la nomina di “uno di loro” a Ministro della Cultura. La festa presto si tramuta in una scena degenerata tra droga, alcol, sesso, terribili recriminazioni. Ma inaspettatamente il giovane Ministro si è come improvvisamente risvegliato, rendendosi conto che la “nuova classe” da cui proviene, pur presentandosi come progressista e aperta al cambiamento, è in realtà marcia, fino al midollo. In questa poltiglia che si rappresenta sono proprio la cultura e l’arte, e in particolare la moda, la performance, il cinema, a dimostrare la degenerazione di una società, quella occidentale, che ha ribaltato le sue intenzioni emancipatrici. In maniera esplicita, e con una certa violenza, le parole sono tutte contro la cultura e l’arte: “non si può più essere tolleranti con l’arte… il nemico non è fuori, ma è tra di noi…”. In particolare in una scena a metà spettacolo emerge tutto questo: al giovane Ministro della Cultura è appena morta la madre. Accanto a lui lo consola la fidanzata che comincia un lungo monologo, nel quale la naturale compassione e vicinanza per l’intimo dolore si trasforma in necessaria e autentica spinta creatrice, per la realizzazione di una performance in cui lei stessa si spalma interamente il corpo di una patina dorata. Gli occhi gonfi di lacrime del Ministro (il bravissimo Benjamín Westfall) si fanno sempre più spiritati, come si risvegliassero di colpo da un lungo torpore e prendessero coscienza del vampirismo e del parassitismo di una creatività moderna, egotica e autistica. Gli occhi luminosi si fanno tanto intensi, che fa impressione scorgere il confine così sottile che separa lo sforzo di un’analisi crudele e impietosa, dalle prime luci di populismo. Ecco che il Ministro, prendendo definitivamente le distanze dai “bo-bo”, proietta su una parete i volti dei direttori dei principali istituti culturali cileni (musei, teatri, accademie…) che ha appena nominato: visi improbabili di persone povere, immigrati, provenienti dalle comunità agricole… progressismo o populismo? Ma non c’è più niente da fare, la disperata spinta al cambiamento non risparmia nessuno e nega tutte le possibili alternative, anche quelle intimistiche e familiari proposte dalla fidanzata: “fuggiamo in campagna, creiamo una nostra famiglia…”.
Mentre dunque si osservano i primi collassi di una generazione smidollata e al contempo arrivista, sessualmente aperta, global, ma di fatto razzista, qualcosa, fuori dal teatro, sembra accadere davvero. Dopo anni posticci, di design estetizzante, di arte e cultura utilizzati come perfetti strumenti di distrazione di massa, ecco che la realtà bussa di nuovo alla porte. È ancora finzione? La manifestazione del 1 maggio per le strade intorno al teatro diventa scenario di rivolte e guerriglia urbana. Gli attori escono a vedere; il pubblico li segue sul video girato da una telecamera a mano. Ci sono tafferugli, proteste, spari. Gli attori, con i volti stravolti, tornano in scena insanguinati, sembra che il mondo si sia rimesso in marcia, che il conflitto sia alla fine scoppiato. È rivoluzione? È repressione? È guerra?
Anche nelle sue incongruenze, nelle sue approssimazioni e ripetizioni, La dictatura de lo coolè uno spettacolo di forte impatto ed è reso credibile da un nucleo di attori particolarmente abili e di grande energia, che riescono a usare registri molto differenti, alternando momenti grotteschi a scene commoventi; attori che ci portano dentro una contraddizione che è nostra, ma non solo nostra, dentro una generazione disperata, ma non rassegnata, dentro un’arte, quella teatrale, ancora capace di rinnovarsi, con metodi antichi e nuovi.
L'autore
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Critico teatrale, è tra i fondatori di Altre Velocità e collabora con la rivista Gli Asini. Dal 2004 conduce una rubrica radiofonica di attualità teatrale su Rete Toscana Classica. Ha curato svariate pubblicazioni nell'ambito del teatro ed è stato codirettore del Festival di Santarcangelo per il triennio 2012-2014 e presidente dell'Associazione Teatrale Pistoiese.