Something to fight for.
Something to live for.
Something to die for.
A distanza di qualche giorno, torna nitido alla mente il ritornello assorbito all’inizio dello spettacolo ospitato a Reggio Emilia durante il progetto di Festival Aperto, e dedicato al coreografo israeliano Hofesh Shechter, da anni attivo a Londra. Ha risuonato con voce confusa facendosi spazio nella densa bruma in cui i danzatori di deGeneration hanno vissuto per un’ora o poco più le loro insofferenze, difficoltà e speranze in quanto esseri umani, sotto gli occhi di altri esseri umani. Con le loro fisicità differenti e accaldati sotto il velluto dei costumi, hanno mostrato il peso del silenzio, l’assurdità delle relazioni umane: il paradossale bisogno di stare insieme e distaccarsi dal gruppo, di provare a dire il proprio pensiero a voce alta e poi non reggerne la forza. Muscoli che tremano e fremono, pronti a scaricare rabbia e insoddisfazioni, a farsi roccia incandescente e sicura.
In un trittico che si evolve in un’unica polverosa atmosfera, con una costante luce calda e sabbiosa, Shechter fa danzare la sua giovane compagnia internazionale su sonorità tridimensionali fatte di voci e rumori da lui spesso composte, tra l’inquietante e il romantico.
A partire dalla prima parte, Cult (2004), i movimenti sono semplici, sono quelli veri di tutti i giorni, rielaborati da corpi estremamente allenati all’emozione. Sono i movimenti che noi tutti nascondiamo agli occhi della folla. Sul palco del Cavallerizza diventano monologhi coreografici singhiozzati che a turno si strappano dal gruppo come cellule che si lasciano abbandonare. Nei loro brevi assoli, gli uomini si dimenano, si concentrano come per recuperare il senno e poi, qualcuno, si batte violentemente in petto. Come uno sfogo tra sé e sé, ingarbugliando pensieri, nevrosi e vergogne. Shechter rende tutto questo visibile, e fa sì che le dita dei danzatori premano, stuzzichino l’aria (le loro paranoie?) appena sopra le loro teste, di spalle, con i bacini incassati. È evidente il malessere che soffoca e preme sullo sterno. Girano su loro stessi stringendosi le braccia al ventre. Le strutture di quei fisici si sciolgono in sinuose ma sofferte curve addominali esprimendo l’inadeguatezza a un mondo che non riconoscono, non accettano. Poi riprendono in un’esplosione collettiva. Uomini e donne avanzano insieme a passi ampi in un tentativo di accordarsi, ma, fisicamente stanchi, rinunciano. Si nascondono ricurvi sul fondo buio. Tranne un giovanissimo. Sotto una fredda luce blu il danzatore alza una mano timida davanti a un pubblico che lo fissa e non lo ascolterà. Non ora: le luci si spengono su di lui.
Come una pausa, Fragments (2003), parte centrale dello spettacolo, è un passo a due che concentra nella formula della coppia le difficoltà del dialogo tra mondo maschile e femminile. Iniziano lontani e paralleli, saldi nel proprio fascio di luce per poi dar vita a uno sdoppiamento di movimento e di ritmo sostenuto da musicalità incalzanti. I due si trovano e si esaminano mostrando una netta differenza nell’affrontare il confronto. Lei è armoniosa, matura e composta. Si lascia guardare e a momenti adorare. I movimenti di lui mostrano imbarazzo e confusione ormonale del tutto maschili: sfida la donna con slanci intermittenti di rap, di scherma e di sguardi veementi. Si avvicina per abbracciarla ma, invaso da scariche elettriche, non trova contatto. Questo breve passo a due dà la possibilità a Shechter di non prendersi troppo sul serio, con piccoli gesti ironici e con il fischiettante sottofondo di Always Look On The Bright Side Of Life, originariamente colonna sonora di Brian di Nazareth, in cui i Monty Pyton canticchiano sulla croce la bellezza e ironia della vita.
Infine, l’ultima e più recente creazione, Disappearing Act (2015): un crescendo, una marcia cerimoniosa e collettiva, in cerca di qualcosa. Forse qualcosa da urlare finalmente in coro davanti al pubblico: «Mi sveglierò domattina e creerò qualcosa di importante: ma cos’è importante?» Rieccheggia una frase sentita nella prima parte coreografica grazie a gesti che si ripetono creando un filo rosso tra le tre sezioni. Un po’ a piccoli gruppi, un po’ all’unisono, i danzatori sembrano agognare un ritorno all’ordine attraverso canoni e insiemi, ottenuti con un dolce ascolto gli uni degli altri, per poi perdere il filo o perdersi tra i fili. Perchè sembrano un nodo aggrovigliato di filamenti organici che pulsano su sonorità mediorientali e schizzano su quel palco dalle luci plastiche, recintati in un quadrato luminoso. Camminano sulle ginocchia, avanzano scomposti come zombie. E poi di nuovo insieme, compatti, urlano parole mute dimenandosi davanti ai fari che li accecano per poi muoversi a passi larghi, dondolando le braccia per aria in una armoniosa Sagra della primavera.
DeGeneration è sudore, è l’avviso di una bombola d’ossigeno che va esaurendosi. Ma sopratutto è il lavoro comune di un coreografo in pieno stile Gaga, affermato ormai in tutto il mondo, e della sua compagnia Shechter Junior, creata per danzatori tra i 18 e i 25 anni, attraversata da una febbrile energia e da una fisicità “selvaggia”. In deGeneration si dipinge attraverso l’espressività di ciascuno, non solo come danzatore ma come persona, il bisogno di ogni essere umano di sentirsi protetto e accettato, di proteggere e accettare. Non c’è sentenza né giudizio, solo una visibile riflessione sul sentimento umano da parte di un coreografo dalla voce tenue e volto sorridente, che ha riversato nella sua fine poetica compositiva l’incapacità di esprimere a parole qualcosa che già quotidianamente nasce per essere movimento.
di Alice Murtas
foto di Victor Frankowski
L'autore
-
Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.