Segue da #1 – Introduzione, pezzi di Sud
Sono piccoli ma pur sempre letali, avventurosi suicidi declamati a voce piena che seguono le melodie del Maggio Drammatico. Appoggiandosi al ritmo che risuona nell’appennino tosco-emiliano e a quello dell’ottava rima I Sacchi di Sabbia danno vita a narrazioni dai toni epici e dai contenuti ridicoli, immergendo al centro di questo contrasto soluzioni sceniche che variano continuamente, mescolando linguaggi e segni. Nel primo componimento sono Pat Garrett e Billy the Kid a fronteggiarsi in un duello sanguinoso e stremante, dove più si spara e meno si muore, e decine di pallottole di vernice rossa vengono messe a segno sulle magliette dei duellanti; accanto al western si realizza la fantascienza della mitica Invasione degli Ultracorpi: i baccelloni stanno arrivando per sostituirsi ai terrestri e il nostro protagonista, ben istruito dal telegiornale e animato da un sincero spirito di accoglienza, insegna all’alieno a fare il caffè e gli mostra l’appartamento in cui vivrà da quel momento in poi, suggerendogli di non fare troppo caso al rubinetto che perde nel bagno. Per ognuno dei gesti a cui assistiamo sulla scena, dal colpo della pistola di cartone al nitrito del cavallo, dall’aprirsi di una porta allo sgocciolare del vecchio rubinetto, è Giulia Gallo a costruire con la sola voce i singoli suoni, intervallando talvolta con un fischiettìo le strofe cantate ora da Giulia Solano ora dagli altri attori.
Seppure in un interessante incrocio di linguaggi e di forme che mette in risalto una paradossale comicità tra epica e umanità quotidiana, Piccoli Suicidi sembra forse rinunciare a un po’ della profondità che nei lavori della compagnia pisana accompagna sempre il sorriso degli spettatori. I quadri visti a Castrovillari in occasione di Primavera dei Teatri, sono solo alcuni dei tanti (quasi venti!) che la compagnia sta progettando e orchestrando. Una sorta di grande serie fatta di piccoli episodi, cuciti uno con l’altro dall’epica musicale del Maggio e dallo sguardo incantato e concreto dei Sacchi di Sabbia.
Portatori di una peculiare forma scenica sono anche i Quotidiana.com, che a Primavera dei Teatri hanno mostrato il primo capitolo della nuova trilogia dal titolo Tutto è bene quel che finisce. In questo spettacolo i due interpreti esordiscono interrogandosi sulle morti necessarie, quelle utili ai fini di un miglioramento sociale a cui si suppone aneli l’intera comunità – culturale, politica, sociale. Paola Vannoni e Roberto Scappin proseguono nella loro ricerca, fatta di ritmi ben scanditi e battute attentamente calibrate, un sapore cinico e surreale, un ostinato rimprovero al mondo circostante fatto a mezza voce ma spietatamente. Il loro teatro, che dagli esordi a oggi approfondisce uno spazio drammaturgico di combattimento, che mette in scena un simbolico duello tra attori e tra attori e pubblico, prova ora a rinnovarsi, introducendo di sottofondo al dialogo una muta coreografia che sa accentare i punti del discorso, innestando alle parole nuovi materiali, suoni, dettagli di costumi e aperti colpi di scena, ma soprattutto i due non guardano più solo il loro (e il nostro) fuori, ma provano ad andare all’interno di loro stessi, analizzando il loro stare nel teatro, rivelandosi nei propri confronti non meno lucidi che con “gli altri”, interrogandosi sulla propria «indifferenza affettiva senza scampo».
In tutto questo risuonare di morti, suicidi, risate a denti stretti o a bocca spalancata, nei meandri di un teatro che vede artisti pronti a modificare le proprie consapevolezze pur di sperimentarsi e fare un passo oltre, capita dunque di vedere opere più o meno smagliate, con inciampi piccoli o grandi, ma certamente si tratta di compagnie desiderose di rischio e che dunque lavorano per incrementare un’idea, una visione legata al proprio stare nel teatro.
Esistono però gruppi che affondano la loro presenza in una mera presentazione di se stessi, dimenticandosi per esempio la differenza fra pensiero e persuasione, fra attivazione e seduzione.
È il caso di Carrozzeria Orfeo, che con Thanks for Vaselina ha strappato al pubblico di Castrovillari un clamoroso applauso finale. La drammaturgia, scrittura originale di Gabriele De Luca, anche attore in scena, è un’esplosione tragica di fatti e azioni: due amici, Fil e Charlie, coltivano marijuana in casa per spacciarla e guadagnarsi da vivere; la madre di Fil è dipendente dai giochi elettronici, mentre suo marito è scappato anni addietro dalle responsabilità famigliari, e compare nel mezzo del racconto trasformato in transessuale; dopo l’operazione, il padre è stato accolto in una setta religiosa che, al termine di un accurato lavaggio del cervello, lo aveva convinto a lasciare in eredità ai leader del movimento i propri beni immobili, sapendo che si sarebbe presto suicidato in massa con i suoi devoti compagni; altro personaggio in gioco è Wanda, una ragazza troppo grassa e ingenua per essere in grado di suscitare attrazione nei suoi coetanei.
Questa drammaturgia, oltre a quelle accennate, mette in fila una rocambolesca sequenza di avvenimenti narrati in poco meno di due ore; l’invenzione di una storia, di un mondo e di ingegnose assurdità è cosa legittima, e da una scena all’altra non possiamo dire che il plot non sia avvincente, ma quello di cui sentiamo la mancanza è un pensiero attorno a quanto narrato: lo sforzo drammaturgico sembra tutto rivolto al risalto delle azioni sorprendenti, a quanto di funambolico accade ai personaggi. Dalla transessualità alle dipendenze, al rapporto tra sessualità e handicap, i protagonisti di questa vicenda sono portatori di differenze sociali su cui si potrebbe riflettere in ogni tempo e luogo, ma nessuno prende posizione di fronte alle stranezze a cui assistiamo. Nessuno reagisce ai traumi proposti dal racconto. E allora a che cosa dovrebbe reagire lo spettatore, se non al ritmo incalzante, allo humor o al crescendo di una situazione sempre più assurda?
L’impressione è quella di un buonismo generale, che tutto abbraccia e niente esclude, e quindi di una tolleranza massima a ogni gesto imprevisto. Viene così a mancare un punto di vista che sia in grado di attualizzare scenicamente una possibile realtà, oltre che raffigurarla in una narrazione. Carrozzeria Orfeo si rivela attenta a trarre dal presente e dalla cronaca tanti punti di conflitto, ma il suo pensiero non sembra trasparire chiaramente. Ogni differenza (sociale, psichica) è accentata da un colpo di scena, al quale fa seguito un istante di sconcerto realizzato in maniera da risultare comico. Questo procedere livella i tanti contenuti presentati, costruendo un organismo in grado di fagocitare ogni anomalia che, una volta risucchiata, viene come dimenticata, sostituita da un nuovo colpo di scena. Così i fatti scorrono, il pubblico assiste partecipando all’ironia dei fatti e appoggiandosi al ritmo incalzante dello spettacolo, e gli attori appaiono imperturbabili.
Altro elemento che ci fa sorgere un dubbio è proprio il lavoro attoriale, imperniato attorno a un processo di immedesimazione che non consente scarti, cancellando la presenza e il pensiero degli attori. Anche nelle più classiche messe in scena della prosa, quando si considera che il personaggio sia tutto e chi lo interpreta funga da medium, esiste una luce personale che traspare, una connessione che permette allo spettatore di focalizzare la domanda o il pensiero che induce quel personaggio a vivere; in Thanks for Vaselina il processo di finzione ci immerge in una realtà parallela, dove l’attore non è più portatore di un mondo ma mero presentatore di un vissuto o di un linguaggio da cui non si lascia scalfire.
Esiste naturalmente la possibilità che, semplicemente, Carrozzeria Orfeo sia alla ricerca di un tipo di teatro che progetta una scatola chiusa, nella quale la storia possa realizzarsi e presentarsi senza colpo ferire. Ma allora che cosa può domandarsi lo spettatore, che cosa può scoprire? In che modo le avventure-sventure di questo quadro famigliare possono riguardarlo, al di fuori di un compiacimento per il lieto fine che verrà o per la seduzione morbosa che la storia trasmette?
Siamo dunque bombardati da questioni di per sé problematiche, ma non si attiva in noi alcuna domanda precisa; tante cose avvengono, ma non c’è tempo di reagire se non aspettando il prossimo colpo di scena. E rimaniamo a bocca asciutta anche su ciò che forse eravamo venuti a cercare: una visione, uno sguardo sul mondo che apertamente si dichiari, senza delegare così tanto alla coscienza individuale dei suoi spettatori.
di Serena Terranova
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.