Nel cortile del centro culturale di Diyarabkır “Dikle Firat” la luce filtra da alcuni teloni che riparano la struttura dal caldo. Ai tavoli sono presenti molte persone, chi impegnato in discussioni di lavoro chi di passaggio semplicemente per un tè e una sigaretta. Ma dalle finestre arrivano incessanti suoni di un’attività eterogenea e intensa: strumenti musicali, corpi che ballano, proeizioni…
Qui incontriamo Giyasettin Şheir, attore autore e regista teatrale da qualche tempo attivo con successo anche in campo cinematografico. La sua è una storia che, come spesso accade nell’area curda, si intreccia con l’attivismo politico e con i conflitti sempre aperti che caratterizzano questa terra. E proprio attraverso la sua storia intravediamo anche il teatro come nodo fondamentale, crocevia espressivo prolifico e proliferante nelle più diverse occasioni, dalle sale ai centri culturali, dalle strade fino alle mura di un carcere.
Ci racconti come è avvenuta la tua formazione teatrale?
Mi sono avvicinato alla recitazione fin da molto piccolo, grazie anche all’ambiente particolare in cui vivevo. Sono cresciuto a Diyarabkır e nel mio quartiere abitavano alcuni ragazzi appassionati di cinema: ci andavano spessissimo e, quando magari non avevano soldi, chiedevano alla sala di lavorare giusto per guardarsi il film. Poi, una volta tornati a casa, ripetevano le scene che avevano visto sullo schermo, scambiandosi i ruoli degli attori.
Perciò il mio primo approccio al teatro è stato agli inizi parecchio “informale”. Ho cominciato a 15 anni, facendo teatro di strada. Erano i primi anni ’90 e nel Kurdistan turco c’era fermento: era stato fondato il Centro Culturale della Mesopotamia (MKM) che ha riunito attorno a sé parecchi artisti. Io elaboravo piccoli sketch, il più delle volte di natura politica, e li mettevo in scena nelle situazioni più svariate, dalle strade di Diyarabkır ai matrimoni privati. Poi è avvenuto l’incontro con un’attrice curda molto importante e si è deciso di fare attività teatrale insieme (attrice che in seguito si unirà alla lotta curda, morendo sulle montagne). È in questa occasione che ho ricevuto una formazione più “tecnica”.
Parallelamente, però, ecco che cresceva anche la repressione statale. Nel 1993 mi hanno arrestato e sono rimasto in carcere per dieci anni. Cercavano di colpire tutti i membri del Partito Curdo dei Lavoratori. Ma pure in carcere ho continuato a fare teatro, assieme agli altri prigionieri.
Nel 2003, una volta uscito, ho lavorato come attore in diverse municipalità del Kurdistan e per un periodo mi sono occupato anche di cinema (arrivando a vincere un premio all’Antalya Film Festival). Ora mi trovo nuovamente qui, a Diyarabkır, e faccio teatro con la mia compagnia nel centro culturale Dikle Firat.
Hai sempre legato la tua pratica scenica all’attivismo politico. Come hai coniugato nel corso degli anni questo rapporto?
Come dicevo, ho cominciato a recitare a 15 anni ed è quindi evidente che provavo (e provo tuttora) un’attrazione verso per il teatro in quanto forma d’arte. Non ho mai considerato il teatro come un “mezzo” da utilizzare per altri scopi… ma è altrettanto evidente che il contesto in cui mi sono trovato a vivere mi ha spinto verso un approccio e un’attitudine alla scena fortemente politici. Mi sono cioè innamorato del teatro ma è stata poi la situazione politica che osservavo intorno a me a determinare il modo in cui ho indirizzato e riempito di contenuti questa mia infatuazione.
Detto ciò, però, teatro e politica nel mio caso passano a costituire un tutt’uno inscindibile. Non posso pensarli come separati. Se anche mi trovassi in un contesto pienamente democratico, dove tutti godono di diritti etc., manterrei comunque un’attitudine simile a quella che mi guida adesso. Non credo si possa far teatro senza avere qualcosa di urgente da dire.
È una questione che a un certo punto diventa personale: io mi sento socialista e cerco dunque di approcciarmi al mondo in maniera “rivoluzionaria”. Perciò cerco di far rientrare anche la mia arte in un’ottica di questo tipo, “rivoluzionaria” appunto. Il che la maggior parte delle volte significa intenderla non come un “megafono” delle proprie convinzioni, bensì un banco di prova, un principio di messa in discussione di quelle convinzioni.
Ma, al di là dell’orientamento di fondo, non sempre metto in scena spettacoli o sketch esplicitamente politici. Mi sono cimentato anche in tragedie, drammi, commedie, danza…
E per quanto riguarda lo spettatore? Pensi che il teatro debba puntare a suscitare determinati effetti nel pubblico?
È molto importante conoscere il proprio pubblico, specialmente qua nel contesto curdo. Conoscere il proprio spettatore, chiedersi quale potrebbe essere la sua reazione è secondo me un principio che dovrebbe orientarci nel processo creativo. Quando nella preparazione degli spettacoli maneggio certi concetti o contenuti, cerco di fare in modo che questi abbiano un riflesso nella vita della spettatore. Se io lavoro in scena sulla “indipendenza” o sulla “libertà”, per esempio, devo chiedermi come, attraverso quali fatti, esperienze e sensazioni il mio spettatore fa conoscenza dell’indipendenza e della libertà. Sono costretto a compiere una vera e propria ricerca “antropologica” sulla forma che i concetti assumono nel suo vissuto, su cosa provochi in lui il riso e cosa il pianto, etc.
Ma il punto non è voler suscitare determinati effetti nel pubblico. Il punto è anche e soprattutto quanto io riesco a farmi cambiare dal pubblico. Nel teatro c’è uno scambio fra artista e spettatore. Entrambi condividiamo una volontà di essere trasformati dall’incontro teatrale, ed è come se io cercassi di strattonare il pubblico in un direzione, mentre lui cerca invece di portarmi da tutt’altra parte. È questa dialettica che mi interessa, non tanto produrre un effetto piuttosto che un altro.
Come si declina tutto ciò nel contesto curdo? Ci sono dei modelli a cui ti ispiri?
Ci sono molti attori cinematografici e teatrali che ammiro. In particolare la mia carriera si è intrecciata proficuamente con quella di Tuncel Kurtiz.
Ma non posso dire di avere dei modelli. Provo a vedere il più possibile, sia a livello nazionale che internazionale, e a trovare la mia strada specifica prendendo qualcosa di buono da tutti. Sono sempre stato in un processo di ricerca, che continua tuttora.
E questo credo sia fondamentale a livello collettivo. Per esempio, sono convinto che il teatro curdo contemporaneo non si debba basare sulla traduzione dei testi classici. Per un periodo ho supportato questa concezione, perché la traduzione è comunque un mezzo per arricchire la propria cultura di altri riferimenti artistici. Ma ora credo che sia assolutamente necessario sviluppare dei testi originali. Altrimenti continuiamo a fare “teatro in curdo” e non “teatro curdo”. Perciò cerco sempre di partire da materiali originali nella costruzione dei miei spettacoli.
La cosa paradossale è che ora il cinema turco (dell’ovest) o europeo sta guardando con sempre maggiore interesse all’area geografica del Kurdistan, perché è un luogo “vivo”, ricco di storie e fatti che possono fungere da spunti artistici. Sarebbe allora assurdo che proprio noi che ci siamo nati e lo viviamo quotidianamente non ce ne interessassimo. A maggior ragione nel momento in cui la più parte delle opere di “esterni” che parlano di Kurdistan peccano, secondo me, di “orientalismo”. La cultura di questi posti viene caricaturizzata, i personaggi curdi sono rappresentati come antipatici e intrinsecamente negativi.
Se guardiamo alla storia, notiamo come il teatro si sia sempre alleato con le lotte di emancipazione. È come se “intuisse” l’esistenza di una lotta di quel tipo e si occupasse naturalmente di portarla avanti coi propri mezzi. È sempre stato così, perché il teatro deve per forza toccare la verità del vissuto di chi lo pratica. Quando usciamo di casa, ogni giorno, sperimentiamo un’oppressione da cui non possiamo scappare, che poi riflettiamo anche inconsciamente nei nostri spettacoli. E per farlo serve coraggio, esattamente il coraggio di quel bambino che diceva che “il re è nudo”.
Ed ecco perché il teatro è – a mio modo di vedere – un “prisma”. Un prisma da cui per forza di cose passano tutti i colori e le sfumature della vita, che sul palco diventano spesso più reali della realtà stessa.
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.