‹‹Scusi signora, stiamo sfondando la quarta parete››. Sfondare la quarta parete. Fisicamente, con una scala che invade la platea, con volti scuri, fantasmi di “domopak”. Sfondare la quarta parete.
Gli acrobati o L’arte di camminare sul filo spinato di Cantieri Meticci arriva dritto al punto. Auschwitz come istituzione, che vive nel nostro contemporaneo, in una nuova guerra, su di un barcone, in un CIE.
Sabato 25 febbraio, Coop di via Gorki, quartiere Corticella, in un anfratto, nascosto, sta il MET (Meticceria Extrartistica Trasversale), lo spazio che ospita lo spettacolo. Nell’atrio che lo precede, una piccola platea di panche e cuscini a formare un semicerchio. Sulla sinistra gli strumenti, immobili, dell’orchestra. Davanti un piccolo teatrino mobile, chiuso da un sipario rosso. Si spengono le luci, si parte.
La quarta parete
Lo spettacolo prende le mosse da un racconto di Nathan Englander. La storia è quella di un gruppo di ebrei che, durante la seconda guerra mondiale, cerca di sfuggire alla deportazione fingendosi acrobati.
Le scale
Davanti agli occhi un cantiere. Un cantiere in continua evoluzione, fatto di scale pronte a trasformarsi in qualsiasi cosa: in una gabbia, in un binario, in un treno, in una macchina mangia uomini, in un teatrino, in una giostrina. Ancor prima che dinanzi a degli attori, ci troviamo davanti a degli operai e al loro cooperativismo. La scenografia, apparentemente assente, viene a materializzarsi attraverso la fisicità degli attori intenti a costruire e decostruire uno strano groviglio di metallo. La scala non solo come elemento scenografico ma soprattutto come strumento drammaturgico.
Ciò è evidente soprattutto nella scena in cui viene evocato lo strumento di morte per eccellenza: il forno crematorio. Due strutture disposte sulla stessa riga, ricavate dall’intersezione di due scale per ciascuna, in alto un grosso tubo, come una clessidra, lascia scorrere della sabbia che finisce sul capo degli attori mentre sfilano, con lo sguardo severo, sotto i rispettivi congegni.
Scale come ghetto, dove si è confinati, nel quale proteggersi. Scale come binari che conducono ai campi di concentramento, sui quali imparare a stare in equilibrio. Scale come fardello onnipresente, peso di cui farsi carico. Ma non solo…
Sfondare la quarta parete
…scale come contrassegno, l’incombenza della storia che sfonda la porta mentre siamo seduti a tavola, la domenica. Sfondare la quarta parete.
La storia del gruppo di ebrei come parallelismo tra il passato e il presente. Un po’ come ascoltare le parole d’un sopravvissuto: il suo dolore scorre nelle sue parole e nella tua commozione, ma “empatizzare”, condividere il pathos, è ben altra cosa. Comprendi quel dolore quando lo riconosci, lo vivi. Auschwitz non è più rinchiusa in un documentario ma bussa alla tua porta di casa e quegli attori sono lì a ricordartelo, con i volti dei nuovi perseguitati identici a quelli dei vecchi, gli uni accanto agli altri. Il tuo presente così vicino a quel lontano passato. Sfondare la quarta parete. È in quel momento che ciò avviene.
La struttura finzionale crolla sotto le raffiche di parole urlate in italiano, dall’accento marcatamente arabo, africano. Ciò che appartiene al passato, che sembra non riguardarci più, ora è stretta attualità. Auschwitz e le sue storie che sembravano sbiadite dal bianco e nero, trovano nuova forma nei volti scuri dei nuovi esiliati, delle nuove migrazioni.
E allora ecco un attore di origine africana che si spoglia davanti al pubblico. Proprio come quei fantasmi che gli sono di fianco, ebrei che si spogliano dei loro averi, persino della loro identità. Lui come loro, loro come lui. Spogliarsi, degli abiti come della personalità, per un foglio di via, per un lasciapassare, per un permesso di soggiorno. Spogliarsi per fuggire, per salvarsi. Corsi e ricorsi, fantasmi di ieri, incubi di oggi.
Quel teatrino immobile, all’inizio, prende vita, finisce per farci vedere le spalle, ci ingloba al proprio interno. ‹‹Scusi signora, stiamo sfondando la quarta parete››, urla un attore. La storia che incombe, che parla al passato ma che puzza di presente. Una lunga scala sfonda il sipario, spingendo gli attori sul pubblico. A trainarla sono i fantasmi di Auschwitz, dai quali emergono lenti quelli di oggi. Pelle scura, parole incomprensibili, accenti africani, arabi. Avvolti in teli termici, invadono la platea. È come se lo spettacolo si fermasse, per qualche minuto. Gli attori si rivolgono al pubblico come se stessero parlando in una piazza, in un bar, provando a raccontarsi. Cosa significa “deportazione”? Questa la domanda chiave. È davvero finita Auschwitz? Quali altri nomi ha oggi? Ora si chiamano CIE?
La musica
L’orchestra accompagna le evoluzioni degli attori-operai, soprattutto quando questi sono intenti nella costruzione dei mille marchingegni che danno forma allo spettacolo. Come alla fine, quando si alzano dalle loro postazioni per disporsi in riga dinanzi agli spettatori, mentre alle loro spalle prende forma una strana struttura…
La giostra
…una giostrina! Veniamo di nuovo inghiottiti nella storia. La scena è surreale, un tableau vivant. Una giostrina che ruota su se stessa. Il vecchio Rabbino, al centro, che sembra sostenerla, dalla quale è sostenuto. Gli attori sui loro cavalli fatti di scarponi, plastica dura e lacci. Uno a uno si sfilano. Finiscono dietro quel teatrino. Il gruppo di ebrei e le loro speranze sembrano spegnersi, lentamente, come la forza centrifuga che fa muovere la giostra.
Sfondare la quarta parete. Un’ultima volta. Il sipario del teatrino che si apre. Rieccoli, i fantasmi di Auschwitz accanto ai nuovi fantasmi dei barconi, dei CIE.
Tutti, assieme, abbozzano tra le labbra un’unica canzone. Un Inno alla Gioia che sa di lamento funebre.
Andrea Trotta
]]>L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.