È la seconda e ultima giornata del laboratorio con Punta Corsara e siamo tutti puntuali ad aspettare di entrare a teatro. La consegna del badge alla segreteria della Soffitta, che sembra un po’ come timbrare il cartellino (gesto che nella realtà mi angoscia da morire), qui sembra la firma di un tacito accordo: esisto, ho scelto di essere qui. È bello, perché dopo le sole quattro ore di ieri, è come se adesso fossimo un po’ una famiglia. Forse succede così quando si condivide la passione, l’alta promessa. Ci si ritrova così, a difendere il piccolo progetto come le madri fanno con i loro cuccioli. Ora che tutti i personaggi della scena “Enfenstrasse 14 sportello emigrazione” de Il cielo in una stanza sono stati scelti e definiti, non resta, appena entrati in teatro, che dar loro voce e spazio. È abbastanza difficile per chi, come me, non è riuscito a trovare una chiave di lettura chiara sul suo personaggio, ma sono fiduciosa. Iniziano il capoufficio Gaetano e il suo subordinato Secchia. Forse più di tutti gli altri, i due allievi sono subito entrati in confidenza con i loro personaggi: sono divertenti, camminano l’uno con un fare nervoso e burbero, l’altro molle e sciancato. Ci fanno ridere di quelle risate che quando si spalancano fanno smettere di pensare. La cosa si fa ancora più interessante quando Emanuele Valenti chiede loro di non parlare più: saranno i loro corpi a mostrarci che tensioni li animano, dove verte la loro attenzione. Scappare dal gesticolare, dall’imitare movenze e particolarità, quando si indossano panni altrui, è un’operazione assai complicata: mimare è uno scudo molto potente, è stare fermi a non far nulla che è complesso. Noi altri partecipanti li guardiamo operare dalle nostre poltroncine comode un po’ impauriti: sappiamo che probabilmente poi quel calvario toccherà anche a noi. I due ragazzi sulla scena, comunque, iniziano a muovere sedia e tavolino del loro ufficio per tutto il palco, come a ricercare, con quel gesto, la via perduta. In questi movimenti goffi, nel loro disagio puro, in quella sospensione del tempo in cui a vigere è il silenzio e la punta d’imbarazzo di chi quel silenzio lo vive sulla pelle, lì, esattamente lì, è esplosa tutta la bellezza. Tutta in un attimo, tutta intera. E Valenti, secondo me, lo sapeva benissimo. Allora mi viene da pensare che questa faccenda della recitazione è una pratica rituale molto strana. Il cantante, per stare in scena, ha il mezzo della voce, il ballerino ha il corpo… ma l’attore, esattamente, che cos’ha? Qual è il veicolo dell’attore per arrivare a chi sta dall’altra parte? Me lo chiedo tuttora, o meglio, la mia risposta continua a oscillare tra due poli opposti: tutto o niente. Eccoci pronti a planare sulle costellazioni di personaggi che si susseguono l’uno dopo l’altro. Una di coloro che hanno scelto il personaggio della signora Angelina, che a causa della «sua cattiva stella» ha perso il suo lavoro ed è all’ufficio emigrazione per lamentarsene, ha trovato un pianto isterico fastidioso e perfetto per rappresentare quella disperazione. Torcinaro, invece, è un lavoratore un po’ troppo aggressivo per cui l’allievo a interpretarlo ha assunto una posizione rigida da culturista e una parlata sboccata e beffarda. Poi è la volta del giovane imprenditore, messo in scena da un timido studente che trova la chiave di volta in una parola soltanto: aridità. Nel ripetere questo e nient’altro si delinea il profilo di un piccolo borghese dagli apparenti buoni costumi che critica la società, ma che sotto sotto probabilmente chiama in causa anche se stesso. Cammina avanti e indietro e ripete sconsolato: «aridità, aridità, aridità». Noi, dall’altra parte, ci sbellichiamo dalle risate. Ancora, ci sono ora tre le ragazze che rappresentano una madre che ha perduto la figlia, che conserva dunque dentro di sé un odio profondo nei confronti dei capi dell’azienda in cui lavorava, causa della dolorosa perdita. Le tre, a turno, scalpitano di rabbia: dal fondale alla prima fila di poltrone imprecano, corrono e si sfogano con una violenza che da tragica si fa piano piano sempre più comica. D’altra parte questa sembra essere la caratteristica di tutti i personaggi trattati, accomunati da una storia che parla d’ingiustizia sociale, d’impotenza di fronte a un ente lavorativo o un’istituzione che finisce, però, chissà per quale strano filo tragicomico, per essere divertente. Ecco che arriva anche il mio turno: io, che interpreto Elsa, e la signorina Liliana Fiuggi stiamo aspettando l’autobus alla fermata. Ancora una volta le cose fluttuano e scelgono al posto nostro dove portarci, cosa farci dire, come farci comportare. Siamo in ascolto e lasciamo che Liliana e Elsa parlino con le nostre bocche e si muovano con le nostre mani e i nostri piedi. Non so da che spettacolo marchigiano, mia terra natale, ho recuperato la parlata, ma dalla mia bocca esce il suono di un dialetto al contempo di mare e di terra, che si s’addice proprio a Elsa, al suo grembiule sporco di sugo, alla semplicità con cui è ubriacata di nascosto e alla leggerezza di quelle vecchie signore che in una qualche strada di provincia finiscono per raccontarti la storia della loro vita. Le voci di tutti noi si susseguono, si incontrano e scontrano, rimaniamo in silenzio, ci agitiamo, ci concediamo, siamo meravigliosamente generosi. Ed è così che termina la nostra festa, non sarebbe potuta andare diversamente: un ballo in cerchio, come alle feste di paese, per lasciare che quella magia covi tra di noi per un po’. Ancora un po’.
Sofia Longhini
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.