Un racconto della tavola rotonda coordinata da Alice Sinigaglia e Francesca Lombardi durante la seconda edizione del festival “Tutta la vita davanti” (La Spezia, 24-26 maggio 2024), presso “Il Dialma – cantiere creativo urbano”.
La Spezia, un anno dopo. Il riecheggiare delle questioni emerse durante la tavola rotonda della prima edizione di “Tutta la vita davanti”, Festival di teatro per vecchi del futuro, ci ha accompagnati fino alla sua seconda edizione, germinando all’interno di festival e dibattiti redazionali fino a questo nuovo momento di confronto. L’incontro dello scorso anno, coordinato da Alessandro Iachino (Stratagemmi, La Falena), aveva provato a mettere al centro della discussione la questione della poetica, cogliendo l’occasione di uno spazio deputato alle generazioni emergenti del teatro contemporaneo. Esiste una poetica condivisa da questa generazione teatrale? Oppure, quali le differenze, quali i maestri o le nuove strade da seguire? Da questo tema di natura teorica, la risposta condivisa dai partecipanti si è rivelata molto pragmatica, portando la discussione a virare su questioni economiche e burocratiche. Nuovamente ospite del Dialma e degli Scarti, questa tavola rotonda viene presentata come un secondo tentativo dopo il «fallimento» dell’anno precedente, così descritto senza alcuna sfumatura negativa da Alice Sinigaglia, direttrice artistica del festival e coordinatrice della discussione insieme a Francesca Lombardi, per provare cioè a parlare davvero di poetica, alla ricerca di eventuali punti di contatto tra i fili che attraversano questo presente teatrale, pur senza pretese di esaustività.
Alice Sinigaglia introduce il dibattito rilanciando una serie di domande precedentemente inoltrate via mail alle compagnie e agli artisti presenti, principali interlocutori di questo incontro: «Cammino per la strada e penso: dove sono quelli/quelle come me? A che punto è la nostra generazione? Perché occuparsi del teatro in questo tempo teso verso il futuro?». Dalle parole di Sinigaglia emergono alcuni elementi apparentemente scontati, che tuttavia restituiscono una cornice nevralgica per tessere le fila di una riflessione che non perda di vista le problematicità sollevate durante la precedente edizione del festival; lo stereotipo del teatro come qualcosa di stantio e di nicchia, una società in corsa alla ricerca di soluzioni utili e pratiche alla sopravvivenza, e quindi la questione più importante di tutte: perché dedicarsi al teatro? Perché fare arte oggi?
Negli interventi da parte della critica si provano a delimitare i confini d’azione di questa generazione emergente, lanciando ipotesi e qualche provocazione. Una delle riflessioni proposte da Maddalena Giovannelli (Stratagemmi, La Falena) riguarda la domanda su quali possano essere le nuove modalità di autodeterminazione: «È possibile darsi un’identità collettiva senza un nemico?». Muovendo dalla vicenda del Gruppo 63, la questione ruota attorno alla possibilità del passaggio tra generazioni senza la reiterazione di un’impostazione gerarchica verticale. In passato questo è spesso avvenuto attraverso la negazione e sostituzione di qualcosa di vecchio, di inadatto, di soffocante, ma in questo caso la precedente generazionale teatrale non sembra configurarsi come un’ombra di cui liberarsi, come sottolineato da diverse voci durante l’incontro. Su questo tracciato Andrea Pocosgnich (Teatro e Critica) osserva un rapporto di vera e propria porosità tra generazioni, in un dialogo che vede compagnie come Sotterraneo o Vico Quarto Mazzini rivolgersi agli stessi giovani artisti di oggi. Pocosgnich indica inoltre la funzione determinante delle condizioni materiali sulla poetica di questa nuova scena teatrale, attraversata da una contraddizione che vede la ricerca comunitaria di un’utopia di esistenza lasciarsi permeare dalla concretezza del mondo esterno. Si può parlare di una pluralità, più che di una generazione, che accoglie questo stato di apparente discordanza, nell’unione di sperimentazione e convivenza di diversi linguaggi, dal teatro di regia alla stand up comedy, al teatro musicale, senza perdere di vista il pubblico come interlocutore. Le scelte poetiche, aggiunge, hanno iniziato a seguire dei fili che non sono più quelli dei luoghi.
Su questa nota si inserisce l’intervento di Francesca Rigato (Stratagemmi), che domanda se i luoghi, a partire da un’identità di cui si fanno portatori, non possano essere ancora oggi generativi di percorsi in comune. Secondo Giulia Odetto (Collettivo EFFE) i luoghi oggi non sono una scelta: dopo aver bussato, quando una porta si apre semplicemente si accetta di essere ospitati, determinando così anche l’efficacia del modo in cui ci si vorrebbe esprimere, mentre Giulia Sangiorgio (Corpora) insiste sull’importanza della scelta dei luoghi, proprio per affermare un proprio percorso poetico, evitando spazi in assenza di aderenza politica o tecnica. Per quanto rimasta solo citata, la questione dei luoghi assume un ruolo politico centrale nel dibattito sul teatro del presente, a partire dal fatto che senza uno spazio in cui provare, difficilmente può emergere qualcosa. Maura Teofili (Carrozzerie Not) osserva una generazione al bivio, in cui le istanze economiche possano configurarsi come cifra di un percorso poetico, oppure essere superate per ricercare un segno autoriale, astraendosi dalle problematiche contingenti. Per provare a svincolarsi dalla presunta, e forse insufficiente, dicotomia tra passato e futuro, Teofili si domanda se, dalle macerie del presente, non sia ora possibile ritrovare uno spazio di immaginazione come punto di ripartenza verso il futuro, senza rassegnarsi al racconto della catastrofe. È possibile essere presenti al proprio tempo senza che questo schiacci la nostra forza immaginativa?
«Siamo una nicchia di intellettuali in via d’estinzione o l’approdo consolatorio di chi non ha creduto abbastanza nel proprio profilo Instagram?»
Dal testo inviato per mail agli artisti da Alice Sinigaglia
Giovanni Onorato (attore, autore) riprende il filo, concentrandosi sulla dialettica tra economia e poetica, elementi che si configurano come perimetro in cui riuscire a trovare il proprio spazio di espressione: l’obiettivo diventa quello di capire come condensare in modo efficace tutto ciò che si desidera comunicare all’interno di un tempo limitato, cercando di accorciare le distanze tra pubblico e teatro. Ulteriore corrispondenza con gli interventi precedenti si riscontra nell’assenza di ombre da parte di grandi maestri, di cui anche Onorato non sente la necessità o la presenza ingombrante da cui liberarsi, come avvenuto in passato, percependo una maggiore distanza da questo tipo di influenza. La ricerca di orizzontalità attraversa gli stessi riferimenti artistici: nella prospettiva di Ugo Fiore (attore, autore), l’ispirazione può derivare da artisti o colleghi indipendentemente dalla loro esperienza o rilevanza, senza che questo determini uno stato di subordinazione.
Dall’altra parte, la tendenza a essere reticenti rispetto alla costruzione di un’identità estetica si presenta come ricerca volontaria di incoerenza, come possibilità di sperimentazione, quanto come non-definizione altrettanto volontaria, nella misura in cui rendersi riconoscibili porta con sé il rischio di essere facilmente vendibili, scontrandosi attraverso la sfuggevolezza contro il potere “brandizzante” del mercato. Giulia Odetto (Collettivo EFFE) riscontra un possibile rimando tra la difficoltà nella scelta di tematiche o di lavori da affrontare e la necessità di non rientrare nel perimetro di una definizione, affinché questa possa essere preceduta da una riflessione sugli ingredienti della propria autorialità. Mentre nell’intervento di Alessandro di Murro (Gruppo Creta) alla ricerca di legittimazione, per quanto riguarda il proprio stesso essere artisti o la propria poetica, si sostituisce una vera e propria ricerca di incoerenza, in una libertà estrema di sperimentazione. Questa porterebbe a una sfuggevolezza che viene a sua volta rivendicata da Evelina Rosselli (Gruppo UROR) nel desiderio di custodire segreto il processo di creazione come strumento di difesa contro il potere cristallizzante delle categorizzazioni di un sistema sempre più subordinato a logiche di mercato.
«Ma il futuro sembra essersi trasformato in una questione privata, sembra di doverlo pianificare davanti allo specchio, come un travestimento. Scegliersi trucco, parrucco, argomento, carattere, battaglia, hashtag, essere riconoscibili per essere riconosciuti. [..] E se invece si cercasse di essere tutto e niente, di continuamente reinventarsi e poi dissolversi in questo tempo che hanno chiamato liquido, annegandoci dentro?».
Dal testo inviato per mail agli artisti da Alice Sinigaglia
La fluidità che caratterizza il nostro presente può essere rivendicata come identità artistica? È possibile adattare una propria forma a diversi contenitori, senza rischiare che siano questi ultimi a determinarla? La precarietà delle condizioni materiali e quella flessibilità troppo spesso richiesta alla dimensione creativa porta con sé uno stato di instabilità che si riflette nell’impossibilità di costruire un percorso che muova dal desiderio e dall’urgenza senza rimanere imbrigliato nelle rigide griglie burocratiche, generando a sua volta una frammentazione all’interno della stessa comunità teatrale.
La pluralità di forme e linguaggi che emerge da questa frantumazione può essere rivendicata come caratteristica identitaria della giovane scena teatrale, non riconducibile a una programmaticità poetica collettiva, ma concorde su un desiderio di orizzontalità che attraversa tanto la molteplicità degli approcci artistici quanto la relazione con il pubblico; tuttavia, la non-riconoscibilità delle diverse voci che la compongono può rischiare di generare un fraintendimento, non tanto da parte del sistema teatrale che in ogni caso tenderà a una sbrigativa categorizzazione, quanto piuttosto di quello stesso pubblico a cui si sceglie di rivolgersi. È possibile delineare uno sguardo come coordinata poetica da cui partire per poterlo di volta in volta stratificare e mettere in discussione, senza che questo finisca per rappresentare un’ulteriore limitazione? Provando a ricostruire delle dimensioni di incontro e scambio come questa, per cercare di guardarsi e (ri)conoscersi, si può pensare questo fermento multiforme come una polifonia, magari scomposta e disordinata, in grado di restituire le sfumature di questo tempo presente?