Innanzitutto, del giovane e romantico ufficiale Narraboth (interpretato da Enrico Casari), innamorato affettuosamente di Salome, ci togliamo subito il pensiero: niente sentimentalismi, in quest’opera, solo furori, follie, ossessioni. Proprio come il tenero e appassionato Jacopo Ortis (eroe romantico per eccellenza), per un amore non ricambiato oltre che in preda a una gelosia attanagliante, il capitano si uccide con un pugnale e cade in modo beffardo tra l’amata e Jochanaan (ovvero Giovanni Battista in italiano). Inutilmente, perché il sangue scorre nell’indifferenza della principessa, che nemmeno lo nota. «Il giovane capitano si è appena ucciso» dice il soldato; ma la Salome assorta ha un solo pensiero: la «bocca rossa» di Giovanni. Insomma, il softcore è poco coinvolgente, troppo normale; anche il pubblico preferisce altro.
La parte più inquietante è forse rappresentata dall’eterogeneo gruppo a latere, diviso tra gli uomini alla corte di Erode (notabili e soprattutto guardie, rigide e inanimate, figure immobili chiuse nell’uniforme) e i giudei, instancabili legulei e ancor più tenaci moralizzatori. Giovani i primi, canuti i secondi, ma entrambi e indistintamente sembrano dei voyeurs. Guardano (godendo?) il quadrilatero erotico inscenato dal quartetto dei protagonisti principali (Salome, Giovanni Battista, Erodiade, Erode). Hanno un ruolo marginale e di contorno e, talvolta, nella loro staticità sembrano automi. Le guardie spiccano nel finale, quando, su ordine del tetrarca, accerchiano la principessa prima di ammazzarla, puntandole addosso le lance come fossero dei falli.
Il tetrarca, ovvero Erode Antipa (interpretato da Ian Storey) è lo sugar daddy della vicenda. Sposa Erodiade, la moglie di suo fratello, ma è più attratto dalla figlia, Salome. Ormai anziano e impotente sfoga le sue voglie in dissoluzioni quasi eliogabaliche (il dramma prende il via da un fastoso banchetto, e il calice di vino è un attributo che passa di mano in mano per tutta la seconda parte dello spettacolo). L’abito che indossa è però paradossale. Come del resto tutti i personaggi fuorché Salome e Giovanni, il costume si ispira alla moda mitteleuropea di fine Ottocento, ovvero quella dell’epoca in cui visse Richard Strauss quando riportò in musica il libretto di Oscar Wilde. Così Erode non appare come il molle lascivo che fu il giovane imperatore di origine siriana, bensì una persona dritta e categorica; la giacca nera con tanto di nastrini, medaglie e decorazioni aiuta a pensarlo come una figura distinta e rispettabile. Un dissoluto, ma elegante. Stravaccato senza forze sul divano chiede e ottiene da Salome di danzare per lui. Giuro: non ho pensato alle olgettine.
L’imperiosa Erodiade (messa in scena a seconda del cast da Doris Soffel e Lioba Braun), testa alta e carattere forte, moglie «incestuosa» come la definisce il Profeta dalla cisterna interrata da cui strepita, è una donna orgogliosa, spregiudicata e senza pietà; ricchezza e potere sono l’aspirazione della sua vita. È una signora sadica e predisposta al comando. Erodiade insomma è la mistress irrequieta e strillante che tiene le redini della scena, l’incarnazione sotto spoglie bibliche della venere in pelliccia di Sacher-Masoch, noto autore austriaco, morto pochi anni prima dell’uscita dell’opera di Strauss; e la moda dell’epoca combacia benissimo con questa figura. La prova di un carattere dominatore la si trova nelle Sacre Scritture, dove del resto ha origine il dramma: sta scritto nei vangeli di Marco (6,17-28) e di Matteo (14,3-11), contrariamente a quanto è possibile leggere nell’opera di Wilde, che la testa di Giovanni Battista è stata chiesta sì da Salome, ma su ordine perentorio («istigazione») della madre.
Lungi da me essere o solo apparire blasfemo, quindi non vorrei che si prendesse troppo sul serio la mia immaginazione; e poi, non è lo stesso atto critico, come lo intendeva proprio Wilde, anche un lavoro creativo e soggettivo? Giovanni Battista (nell’interpretazione, anche qui alternata per cast, di Tuomas Pursio e Sebastian Holecek) incatenato e bistrattato in una buca ricorda le pratiche BDSM, che forse a qualcuno fanno paura, a qualcun altro non si sa come ma eccitano, e ai più, come il sottoscritto, non fa che strappare una risata. Però il Profeta è vestito di stracci sporchi, capelli lunghi e barba trasandata, e non con il classico zentai, l’abito aderente che copre tutto il corpo, reso popolare grazie alla celebre scena – tipicamente tarantiniana – di Pulp Fiction (quella nello scantinato del negozio di dischi… insomma, rivedere se dimenticato; repetita juvant, dicono gli istruiti). Della bellezza intravista da Salome e da lei lodata morbosamente non ne abbiamo prova: il «corpo bianco e magro», i capelli come «grappoli d’uva», la «bocca rossa come un ramo di corallo», sono nascoste dietro all’incuria fisica. Il Battista si è da tempo immolato a Dio, attende solo la fine, per congiungersi a esso.
Infine, la Salome. Ammetto, offuscato forse da tanta arte e letteratura dell’epoca (penso soprattutto alla Elena Muti dannunziana), che la principessina allo stesso tempo sfacciata e graziosa me la sarei aspettata in qualunque forma, ma non coi capelli corti e con un taglio da marine dei film americani (interpretazione in questo caso di Ausrine Stundyte; mentre la seconda interprete è Manuela Uhl). Volontà del regista? Conformazione (e ostentazione) alle attuali osservanze su temi gender? Resta il fatto che il viso della Salome è molto bello, appare quasi giovanile, e se non fosse per l’ostinazione con cui persegue le sue frivolezze la si direbbe pure una ragazzetta innocente. Si comporta come una doughter, viziata e capricciosa, consapevole che con la sua bellezza può ottenere tutto ciò che vuole. È al servizio di Erode, ma è ossessionata da Giovanni Battista. Il rifiuto risoluto e secco di quest’ultimo non la ferma nella sua volontà di baciarlo, ma anzi ne intensifica il desiderio che, da semplice sfizio, diventa brama. Riuscirà a ottenere le labbra del Battista con l’astuzia, dopo aver ballato la danza dei sette veli in onore del tetrarca: la testa del Profeta le sarà portata recisa dal corpo, su un piatto d’argento: anemica, smunta, morta.
Già di per sé dopotutto, va detto a mia (parziale) discolpa, il testo di Oscar Wilde, da cui è tratta l’opera di Strauss, è legato da un sottile filo rosso di amore ed erotismo, di nobile sensibilità ma anche di ardente lussuria; quindi non ho fatto niente più che farmi trasportare dalla musica dell’orchestra, diretta da Juraj Valčuha (vincitore nel 2018 del Premio Abbiati come miglior direttore d’orchestra) dall’esecuzione evocatrice e raffinata, dinamica nella sua alternanza tra pianissimi e fortissimi. E forse un poco superiore alla messa in scena di Lavia, che ripropone con piccole modifiche lo spettacolo del 2010. Penso soprattutto alla danza dei setti veli, dove la Salome non ha saputo spingere al limite quella carica erotica e femminile intrinseca al suolo ruolo, più muovendosi da una parte all’altra del palco che danzando e ondeggiando sensualmente. Un po’ più di civetteria e di voluttà, in fondo, non ci sarebbero state male.
Damiano Perini
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.