In occasione della tappa bolognese de Scusate se non siamo morti in mare dell’Associazione Teatrale MaMiMò, in scena ai Teatri di Vita da Venerdì 24 marzo a domenica 26, abbiamo raggiunto telefonicamente l’autore del testo Emanuele Aldrovandi. Come nasce l’idea di scrivere questo testo? Io e Pablo Solari (il regista) volevamo raccontare di immigrazione, di qualcosa che avesse a che fare con il dramma che vedevamo e vediamo ogni giorno sui giornali e in televisione. Però ci sembrava un po’ ipocrita raccontare in prima persona, cercando di essere realistici, il viaggio dei migranti che dal nord Africa vengono in Europa. Questo perché fare cronaca è compito dei giornalisti e dei mezzi di comunicazione. Il ruolo del teatro invece deve essere far riflettere su cosa significa questa migrazione, questo spostamento, questo movimento di masse di persone da un continente all’altro. L’idea di ambientare la storia in un ipotetico futuro dispotico, in cui sono gli europei ad andarsene verso luoghi ignoti e sconosciuti serve a non rimanere incollati al presente, a spostare la prospettiva per avere uno sguardo più universale. Rispetto a ciò che mi ha appena detto, Paolo Carnevale nella prefazione al testo scrive: «Qui credo stia la forza di Scusate se non siamo morti in mare: nel non essere un’opera parassita della realtà… nel mostrare un’immagine di questa realtà che normalmente non ci è mostrata; nel renderci evidenti le sue dinamiche e le sue ragioni. In questo modo il teatro riacquista un senso, ed è un senso forte: nella sua funzione di riaprire il dialogo con la società, laddove i media spesso lo chiudono.» Si può dire che il vostro sia un risultato riuscito? [caption id="attachment_1115" align="alignleft" width="470"] Emanuele Aldrovandi[/caption] Sì, assolutamente, ci è sembrato che sia arrivato ciò che volevamo. Abbiamo messo in scena lo spettacolo anche davanti ad un pubblico di migranti e credo che lo abbiano apprezzato perché da un lato si sono riconosciuti e dall’altro non si sono sentiti “sfruttati”, non hanno sentito “violentata” la loro esperienza, non hanno sentito l’ipocrisia di noi che abbiamo la fortuna di non essere obbligati a vivere tale esperienza… non hanno avuto la sensazione che sfruttassimo la loro storia per fare uno spettacolo. Quindi lo spettacolo è ambientato nel futuro per raccontare il presente, cercando di non sfruttare la sofferenza dei migranti? Sì, ma anche per non appiattirsi perché spesso si corre il rischio di considerare l’immigrazione solo attraverso frasi fatte: «non devono arrivare perché sono troppi», «è giusto che vengano», «dobbiamo aprire le frontiere», «è colpa nostra che facciamo le guerre nei loro paesi». Non volevamo uno spettacolo appiattito sulle notizie di cronaca. Lo scopo era raccontare cosa significano a livello storico-universale gli spostamenti di intere popolazioni che, come molte specie animali, migrano per costruirsi una vita altrove. È qualcosa che ha molto a che vedere con la natura stessa dell’essere umano e delle specie animali. Non solo con i fenomeni sociopolitici del 2016. Il testo dello spettacolo è stato scritto nel 2015. Pensa che gli eventi dell’ultimo anno, le elezioni di Trump in America e l’ascesa del Front National in Francia, per fare due esempi, ne avrebbero influenzato la scrittura? No, perché abbiamo cercato fin da subito di avere uno sguardo che potesse andare oltre la contingenza del presente. Se avessimo fatto ciò lo spettacolo sarebbe già vecchio. Penso che il teatro, per i suoi tempi lenti, non possa essere un mezzo per raccontare la cronaca. Deve essere invece sfruttato per raccontare i tempi, l’epoca che stiamo vivendo. Deve avere uno sguardo più profondo. Perché caratterizzare i personaggi con una qualità fisica\estetica, invece che utilizzare un nome? Ho pensato che nel momento in cui ti ritrovi disperso in mezzo al mare, solo con il tuo corpo, le caratteristiche corporali sono le uniche cose che rimangono a definire una persona. Inoltre, dando dei nomi avrei definito delle nazionalità, cosa che volevo evitare, volevo che i protagonisti fossero europei. Se li avessi chiamati Marco, Pedro o John non li avremmo più identificati come europei ma come italiani, spagnoli o inglesi. È stato un lavoro di gruppo o un lavoro individuale? Essendo nato per partecipare al Premio Scenario è stato un lavoro collettivo, non solo mio e del regista ma anche degli attori che hanno partecipato. I personaggi li abbiamo pensati già con in mente un attore. Poi col tempo ci siamo divisi i compiti, io la scrittura, Pablo la messa in scena. Però soprattutto la parte iniziale (dunque l’idea, il concept) e come strutturarla è stata condivisa. La scelta della balena come animale che migra e che si sta estinguendo a cosa è dovuta? C’è anche un risvolto ambientalista? È presa come animale mitologico che rappresenta la migrazione, è legata alla Bibbia ma anche a Moby Dick, è l’animale che rappresenta il cambiamento. Non sono state prese tanto per il problema estinzione ma in quanto simbolo dell’animale che si sposta su lunghe rotte e durante lunghi periodi di tempo. Rappresentano quindi l’idea della natura in continuo mutamento. Il risvolto ambientalista c’è, è tangente, ma non è l’idea iniziale da cui si è presa la figura della Balena.
A cura di Pietro Perelli
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.