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Scomporre la memoria, scomporre il corpo. "Dissonorata" di Saverio La Ruina

di Altre Velocità

Dissonorata di e con Saverio La Ruina, uno dei fondatori di Scena Verticale e vincitore nel 2007 proprio con questo lavoro di ben due premi Ubu. Il lungo monologo, esposto per intero in un dialetto arcaico a metà tra la Calabria e la Basilicata, pare una lunghissima canzone in cui temi, intercalari e tonalità si combinano insieme e costituiscono diverse melodie. Nella scrittura del racconto, definito in apertura dalla protagonista Pasquina «nu cuntu» trascinato dal vento qua e là e rievocato nella sua memoria sempre uguale, si avverte un magma proveniente da un sapere arcaico e popolare e da uno studio antropologico a cui La Ruina attinge per costruire questo canto. Saverio affonda le mani nei luoghi profondi del meridione, veste una tunica con una decorazione simile a un arazzo, dà una voce e un corpo a Pasquina, una giovane ragazza del sud, un archetipo femminile del tutto nuovo e personale. L’interprete si cuce addosso mirabilmente l’identità di questa donna, veste i suoi abiti, si comporta come lei, in un gioco che mischia la realtà e la psicosi dell’umano. Egli “ingentilisce” i suoi movimenti e la sua voce, calcola geometricamente il moto delle mani, trattiene fermo e stabile il busto esile della ragazza e accosta un tic nervoso al tendine di uno dei piedi. Ciò che ne esce è una lunga scomposizione di un corpo femminile attraverso uno studio prosodico della parola e la riproposizione di un linguaggio comune, parlato, spezzato nella sua unità e riversato pubblicamente in una modulazione costante del ritmo e della voce. In scena La Ruina disseziona il corpo di una donna porzione dopo porzione, rinviando al destino meschino e amaro a cui è stata costretta Pasquina, ingravidata e poi rifiutata dal suo amante prima e costretta a subire un’offesa ben maggiore dai familiari poi: il tentato omicidio con il fuoco per il disonore che la famiglia ha subito da questi fatti così scandalosi secondo le dicerie del paese. L’intera massa dei suoi ricordi viene disaggregata e disfatta per riportare alla luce lontane rievocazioni simili a lunghi e sottili fili, che formano un enorme reticolato nella mente e che rischiano di rompersi a causa dello scorrere del tempo. Nella sua memoria la città che abita non è una descrizione fedele o una rappresentazione calligrafica, ma è fatta di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato. L’atto che La Ruina compie è quello di scavare nel corpo sgraziato e debilitato di una donna, che immaginiamo evochi il racconto sul letto di morte, quasi in età tarda, con il volto bruciato per l’offesa ricevuta. Allora ci vengono alla memoria le figure che compongono la teoria pittorica di morti, costruita mirabilmente da Joyce, per la città di Dublino: di fronte ritroviamo vittime di una paralisi che ha accecato il mondo. Pasquina, che nel racconto avrà sana e salva la sua vita e darà alla luce il figlio, pare una morta che si riversa nelle strade del suo paese, vaga nelle terre che ha abitato, si trascina con i suoi tormenti e attraverso gli occhi della morte ritorna alla vita. Alle sue spalle nella scena, i suoni del polistrumentista Gianfranco De Franco accompagnano il flusso vocale del racconto, generando sferzate, tagli e brusche cadute destinate a rompere e scomporre una possibile linearità dell’esposizione per indagare tutte le sfaccettature più oscure e segrete dell’animo umano.

Damiano Pellegrino

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