“Che foto metterai sulla tua lapide?” Chiede l’uomo alla donna. Interviene l’uomo elegante. “Io ci metterò uno specchio”.
Un uomo ben vestito, alcolista. Una donna, depressa e sola. E un uomo che, portando sulla schiena una lapide che vediamo essere la sua, cerca in tutti i modi di sdrammatizzare la propria condizione. Tre personaggi che non hanno un nome, ma che si identificano con necessità e attitudini dei personaggi stessi: tre “maschere” che rappresentano quindi il ritiro sociale, la rassegnazione e il distacco.
Tratto da “Gli scarabocchi di Maicol&Mirco”, il regista e drammaturgo Andrea Fazzini, con i suo progetto Teatro Rebis, mette in scena l’amara rassegnazione dell’ineluttabile, dove tutti gli elementi della scrittura scenica convergono in un’unica stimmung: il taedium vitae.
I protagonisti provano infatti ad accettare la vita e l’inevitabile destino di morte che essa comporta in maniera diversa. L’attore che “impersona” il distacco tenta, attraverso vari escamotages comico/ironici di deviare l’attenzione dalla proprie ossessioni. Ma i suoi sforzi sono destinati a fallire: con incostanti manifestazioni emotive, esplode per poi svuotarsi, tenta di correre, di saltare ma esaurisce l’energia in breve tempo fino poi ad uccidersi col raggiungimento del climax drammatico. La donna, che scoraggiata e stremata si rinchiude in uno spazio sempre più ristretto della scena, finisce col ritrarsi inerme nel vuoto del silenzio e dell’immobilità, in segno di estrema rinuncia. Quell’uomo ben vestito invece, atrofizzato dal quotidiano rifugge il presente attraverso l’abuso di alcol, e tenta di dare un senso a tutta la sua sofferenza con vane considerazioni di carattere esistenziale. Nello spettacolo non vi è una vera e propria trama: la narrazione si incentra soprattutto sul sentire dei personaggi, che hanno a disposizione il solo momento presente per spiegare al pubblico di stare aspettando la fine. Ciò che succede in scena è allora un mezzo atto a giustificare le riflessioni che i protagonisti propongono, ciò che conta è poter ridere di tutti gli eventi che si presentano a loro, e porre l’attenzione sull’interiorità umana.
La noia di vivere che pervade l’intero spettacolo, pulsante e crescente, segue dunque una dinamica scandita da diversi cicli di consapevolezza. In questo, la scenografia assume un compito fondamentale all’interno del disegno drammatico: nel suo essere quasi completamente priva di elementi veicola autonomamente il senso della tensiva progressione della narrazione, ponendo l’aspetto dialogico ad uno stato di temporanea subordinazione. L’ambiente scenico neutro diventa quindi “segno” e in quanto tale ha un valore semantico. Sembra voler simboleggiare in alcuni momenti il passaggio da una dimensione ad un’altra, come se vi fosse uno spostamento di luogo, ma non esplicitandolo attraverso espedienti visivi, quanto attraverso l’utilizzo del linguaggio non verbale. L’impiego del white noise nelle parti musicali sottolinea i momenti di maggior disorientamento, nel quale il regista porta consapevolmente lo spettatore per confonderlo e stordirlo, lasciando più al silenzio che alla parola il ruolo di narratore. Allo stesso modo la sottrazione degli elementi scenici fornisce la possibilità di concentrare l’attenzione su altri necessari fattori, quali l’utilizzo ambientale della luce e del suono. Lo sfondo visivo diviene allora “scrittura” nella misura in cui i vari oggetti presenti sul palco, siano essi utensili, strumenti usati dai personaggi o i personaggi stessi nei loro automatismi comportamentali, non esistano più per essere visti ma per essere esperiti.
Così anche i movimenti degli attori assumono la forma di una complessa “partitura gestuale”, andando ad alimentare una rappresentazione delle profondità umane come multiforme “dialogo corale”, dei personaggi a livello intrapsichico ed intersoggettivo, ma soprattutto dei personaggi con lo spazio in cui sono inseriti.
Il “Motto di spirito”, rappresenta uno dei processi cardine della teoria freudiana,un processo atto a scaricare le emozioni con una funzione catartica, ed è proprio attraverso l’ironia, seppur amara, che “Scarabocchi” mette in scena situazioni di vita quotidiana ed emozioni che in qualche modo accomunano ogni essere umano, in vari momenti della propria vita. Riflessioni che diventano quindi veri e propri atti linguistici, con una propria semiotica e che vanno a toccare e a influenzare direttamente le manifestazioni fenomeniche dell’esistenza umana, laddove i protagonisti, il cui mandato pare essere quello di rappresentare gli archetipi delle vicende umane, si ritrovano proiettati in una dimensione prima superficiale, poi profonda. Luoghi differenti che segnano la presa di coscienza riguardo al proprio sentire, dove le emozioni prima vengono negate, poi discusse, ed infine interiorizzate.Un richiamo alla drammaturgia dell’angustia tipica di A porte chiuse di Sartre, dove i personaggi sono costretti a condividere il medesimo spazio e a confrontarsi prima con gli altri e poi con se stessi.
Il fine di Scarabocchi pare allora essere quello di trattare le grandi tematiche riguardanti l’uomo, la vita, il tempo, e la morte. Non potendo però dare risposta tali assillanti domande, il tutto pare ridursi alla consapevolezza di come sia inutile tentare di risolvere tali enigmi. La seriosità che per buona parte è centrale sulla scena si sgonfia, trasfigurandosi in amenità, in battuta, in motto di spirito appunto: “ Ammazzare il tempo nell’attesa”, così recita “l’uomo elegante”, con disillusa arguzia che pare riassumere l’andamento dell’intero spettacolo.
di Ilaria Mazzari
foto di Marco Biancucci
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.