Questo diario dal festival di Santarcangelo è prodotto dal “Laboratorio itinerante di giornalismo culturale in Romagna“, organizzato da Altre Velocità, che segue cinque festival estivi del territorio romagnolo.
È un normale sabato pomeriggio di festival a Santarcangelo; la piazza ha appena iniziato a popolarsi ed è colorata di un arancio brillante che riflette sui bicchieri dei bar, sulle pietre calde del suolo, sulle mura degli edifici tra cui quello del municipio, che placido si erge al di là della strada. Mentre tutto sembra procedere al rallentatore, una voce sicura e pungente, proveniente da qualche parte ancora sconosciuta, si appella attraverso un microfono proprio a noi, i sonnambuli di questa piazza semi-addormentata. Guidati dal fervore del suono e intorpiditi dal caldo, siamo chiamati a radunarci, insieme a un piccolo gruppo di persone con alcuni fogli in mano, rivolti verso il Comune. Ecco, sul balcone del palazzo, Jana Shostak a parlare. La performer si pone con fare determinato, deciso. Da quella posizione emblematica l’attivista – supportata da alcune immagini mostrate dagli uditori coinvolti – inizia a condividere la sua storia recente, il dramma di un paese oppresso dalla dittatura come la Bielorussia, gli sforzi per far valere in quel luogo i diritti umani, la sincera volontà di far conoscere la storia scomoda di una politica repressiva. Questa narrazione improvvisa, come la doccia fredda del mattino, ha contribuito al nostro risveglio. Ora siamo tutti in attesa di saperne di più, siamo coinvolti, siamo presenti. Shostak ne è consapevole, perciò ci chiede di votare, attraverso il rumore degli applausi, la più assurda tra le condanne che dei civili hanno subìto negli ultimi anni, poiché colpevoli di aver esposto i colori della bandiera bielorussa bianca-rosso-bianca, simbolo nazionale di resistenza. A ogni sentenza noi uditori abbiamo acclamato con fragore sempre maggiore, a ogni abuso di potere narrato è corrisposto un applauso, a ogni repressione un segno d’apprezzamento. L’esperienza è straniante. Siamo i buoni o i cattivi? Condanniamo o approviamo? Chi ha iniziato a seguire la performance solo dopo la premessa dell’artista, potrebbe scambiarci per oppressori radicali, mentre chi già era presente, sa per certo che parteggiamo per gli oppressi. In quel preciso istante, mentre stiamo applaudendo, potremmo essere entrambe le cose, vittima e carnefice, perseguitato e persecutore.
Al termine delle votazioni, come ultimo atto corale Jana Shostak ci chiede di condividere quello stesso grido che nel maggio del 2021 – esattamente un anno dopo lo scoppio delle proteste antigovernative scatenate dallo scandalo delle elezioni truccate – ha compiuto di fronte al palazzo della Commissione europea a Varsavia. Così, ancora più consapevoli e indignati per i soprusi subiti da innocenti, tutti ci posizioniamo vicini, rivolti verso la piazza, e dopo aver gonfiato i polmoni con più fiato possibile, iniziamo a gridare in coro ininterrottamente per sessanta secondi a bocche spalancate. Dentro queste urla stonate c’è rabbia, c’è impotenza, c’è incredulità, c’è compassione, c’è paura e c’è fermezza. Un lunghissimo minuto di grida zittisce tutto il resto: non c’è spazio per nient’altro in piazza Ganganelli. Le nostre voci intrecciate ci fanno sentire parte di qualcosa che è reale, e il confine tra arte e vita si assottiglia fino a diventare impercettibile.
In Scream for Belarus – questo il titolo della performance andata in scena al primo weekend del festival – Jana Shostak presenta la realtà che vive; non fa parafrasi o mediazioni bensì racconta i fatti in modo diretto, senza il filtro dell’azione artistica. Semplicemente, a chi la sa ascoltare, regala tracce di vissuto e testimonianze. Questo suo dialogo, a metà tra il comizio politico e la manifestazione, diventa elemento caratterizzante di tutta la sua poetica: scavando nell’esperienza donata a Santarcangelo, questa non si limita a un accrescimento di conoscenze sulle vicende sociopolitiche bielorusse, ma si interroga senza trovare soluzioni sulla biforcazione della natura umana, cioè la coesistenza in ogni individuo dell’essere preda e predatore insieme. Il buono e il cattivo coesistono nello stesso corpo, ma – insegna l’attivista – sono le scelte che si fanno giorno dopo giorno, le azioni che si compiono, le parole che si pronunciano e il senso che si dà al vivere, che determinano quale delle due anime prevale sull’altra.