Questo diario dal festival di Santarcangelo è prodotto dal “Laboratorio itinerante di giornalismo culturale in Romagna“, organizzato da Altre Velocità, che segue cinque festival estivi del territorio romagnolo.
Cosa ne sarà di noi domani? È troppo da sopportare il disastro climatico in corso, l’emarginazione di qualcuno ritenuto diverso da noi, la condizione geopolitica, sociale e culturale in cui siamo immersi? Forse non sarà mai abbastanza quello che faremo, o forse sì. Da questa krisis il direttore artistico del Festival di Santarcangelo Tomasz Kireńczuk – in un dialogo generoso e confidenziale con noi partecipanti al laboratorio di Altre Velocità poco prima dell’inaugurazione – disegna i contorni della cinquantatreesima edizione dell’evento. Proprio a partire dalla certezza dell’incerto e dalla bruciante situazione dell’oggi, così fuggevole e plurale, il festival colora le vie del paese di un’amara fragilità esistenziale. Il direttore artistico con questa scelta non intende «negare la ferita dell’umano», anzi desidera osservarla da vicino, indagandone le ragioni profonde «attraverso i corpi e le memorie degli artisti». Questi si manifestano a Santarcangelo come testimoni del presente che, coraggiosi, incontrano la paura, amano la fragilità, vivono l’emarginazione, custodiscono l’imperfezione. Nell’incontro fisico e duale tra attore e spettatore, in questa edizione del festival avviene dunque, dice Kireńczuk, «un ritorno a forme intime in spazi intimi», con molti assoli, scenografie ridotte all’osso e linguaggi sempre più ibridati, confusi e plurali, e dove «non è più sufficiente una formula sola per esprimersi, poiché sono sciolte tutte le categorie». La scelta non è casuale: è il momento storico, così specifico e complesso, a dettarne i confini per contrasto. Alle grida del mondo si sostituisce il sussurrio del festival, agli abiti di scena i corpi nudi, alle parole l’immaginazione, al rassicurante il perturbante. Ogni performance somiglia a un segreto confessato, a una confidenza sincera di un amico, a un pensiero prima che sia detto; ogni artista costruisce la sua potenza scavando nel dolore, esaltando la precarietà del vivere in questo tempo.
Margherita Alpini
Dana Michel, Cutlass spring
Una piccola sala piena di luci con le sedute a formare un quadrato intorno a un tappeto bianco. L’aria ferma. Le persone che timidamente scelgono un posto in cui sedersi. Una scelta, ponderata o casuale, che determina la prospettiva da cui si guarderà lo spettacolo. La sorpresa di trovarsi sotto le luci e lo sguardo degli altri e poi la lieve soggezione, quando le luci si spengono e la performer arriva, di non capire cosa stia succedendo.
Le sensazioni suscitate dall’inizio dello spettacolo di Dana Michel Cutlass spring racchiudono un po’ ciò che si prova ad arrivare a Santarcangelo in un caldo weekend di luglio, mentre artiste e artisti da tutto il mondo danno forma e vita alla cinquantatreesima edizione del festival. “Enough not enough”, il claim di quest’anno, apre lo sguardo a una serie di interrogativi: cosa non abbiamo più intenzione di accettare? Di cosa sentiamo la mancanza? Come riuscire a condividere una realtà sempre più caratterizzata da disuguaglianze, ingiustizie e sfruttamento? Ma come ci ha detto il direttore artistico Tomasz Kireńczuk, è un claim che si apre a moltissime interpretazioni.
Anche quello offerto da Dana Michel è uno spazio che rimane aperto all’interpretazione, uno spazio per allargare il proprio orizzonte e la propria percezione. Michel usa il suo corpo fluido e oggetti di uso quotidiano – una forchetta, delle sedie, una busta di ghiaccio – con cui interagisce all’interno di una scena di cui ridefinisce continuamente i confini, entrandone e uscendone. Con movenze che a tratti evocano quelle tipiche della disabilità cognitiva e che non sembrano avere uno scopo preciso, la performer raccoglie gli oggetti, li avvolge, li lancia, poi ne porta altri verso di sé e di nuovo li ammucchia e li sposta. Il pubblico è spinto a volerla vedere finire il suo “strano” lavoro, apparentemente senza senso, che sembra volerci ricordare l’insensatezza delle sovrastrutture della nostra società e i paradossi su cui sono fondate. È per questo che una forchetta è perfetta per lanciare via sedie. Ma mentre completa il suo lavoro, l’artista si denuda, si agita tra il ghiaccio e si siede su un secchio da cui esce una musica, nel tentativo di silenziarla. Tutti questi gesti ricordano i soprusi sui corpi neri, spogliati per le perquisizioni, persi nel mare e silenziati per sempre. Ma Michel usa il suo corpo anche per parlare di sessualità, e lo fa proprio mentre ci mostra anche tutto il resto, cercando quindi di intrecciare la sua identità a tutte le altre che assume nello spazio. Per tutto lo spettacolo si ha la sensazione che stia combattendo contro qualcosa, che cerchi di reprimerla. La sua personale lotta contro questa repressione e il tentativo di far emergere il suo sé più autentico ci ricordano che sarà sempre necessario uno sforzo contro l’onda oppressiva e che no, enough is not enough.
Caterina Miryam Langella
Chiara Bersani, (nel) SOTTOBOSCO
(nel) SOTTOBOSCO di Chiara Bersani è un inno alla diversità, anticonvenzionale e figlio di un linguaggio contemporaneo. Lo spettacolo si apre mentre il sole è ancora alto. Dal silenzio assoluto si levano dei suoni aspri, che trasmettono prima disagio, poi tensione e infine autentica paura. Ai suoni si uniscono a mano a mano i movimenti di due corpi. Prima quello di Chiara Bersani, che viene presto seguito e imitato da quello di Elena Sgarbossa. Eseguono movimenti lenti, meccanici. I loro volti esprimono sforzo, come se ogni passo costasse loro una fatica che il corpo non si potesse permettere. Fluttuano in uno spazio indefinito, dapprima allontanandosi per poi ricongiungersi e fondersi l’una con l’altra. Se all’inizio è palpabile un senso di desolazione, quando la performance avanza la musica, ora accompagnata da un canto, si fa più dolce, la luce naturale si fa più scura e quella artificiale scalda i volti dei performers sostiruendosi al tramonto del sole. Gli ostacoli sparsi sul pavimento vengono ammucchiati di lato per fare strada al momento dell’incontro tra i corpi, diversi ma ora molto vicini. Le performer si abbracciano strette guardandosi intorno, come a voler colmare lo spazio riempito dalla solitudine.
Iniziare il festival di Santarcangelo con questo spettacolo è stato per me accettare che il teatro può assumere connotazioni diverse a seconda degli elementi che in quel momento si intersecano: il paesaggio, gli abitanti che lo popolano, la luce naturale e infine gli spettatori, che osservano e ascoltano ognuno attraverso il filtro della loro esperienza di vita. Guardare questo spettacolo è stato assumere la consapevolezza che la performance non è fine a se stessa solo se comunica con ciò che ha attorno: tutto assume un significato e anche ciò che non si apprende appieno può generare una catarsi.
(nel) SOTTOBOSCO è una performance con cui risulta naturale empatizzare. Noi spettatori rimaniamo immobili e ci prestiamo all’ascolto, ritrovandoci a dialogare con la scena, scoprendoci emozionati davanti alla celebrazione della diversità. Ciò che ci resta alla fine sono tante domande inattese, alle quali probabilmente non troveremo tutte le risposte.
Alessandra Sabbatini
Con (nel) SOTTOBOSCO, al Festival di Santarcangelo Chiara Bersani ci regala un’ora di immersione alchemica in noi stesse. Una performance che trasforma la materia, immersa in un tempo indefinito e sospeso nell’etere, ma anche profondamente ancorato nel presente, in cui noi spettatori perdiamo la cognizione di noi stessi e iniziamo a vivere di sensazioni viscerali. «Tintinnio di ossa, boato di sassi, valanga, la tettonica a zolle ha svelato le schiene», narra la voce della performer. Un viaggio che ci traghetta contemporaneamente, dall’energia sprigionata dalle sinapsi nel nostro cervello alle connessioni tra ife nel terreno per giungere al principio dell’Universo. La scena è uno spazio in cui due corpi entrano in connessione, si contorcono, si incontrano, si toccano, si fondono e si ricompongono. «Nei legamenti lassi del tuo ginocchio ho visto sorgere il sole». Non ci sono confini ma tracce di infinità, come la linea dell’orizzonte del campo, oltre la pedana in cui si svolge la scena, che incontra il cielo e poi con la notte si fonde. Grazie alla delicatezza dell’artista, entriamo in punta di piedi nel mistero profondo che porta con sé il buio, intuiamo cos’è stata la creazione, ma soprattutto la complessità della vita.
Carlotta Rodighiero
Come vengono visti i nostri corpi? Sono socialmente accettati oppure bisogna lottare farli accettare? La realtà porta a pensare che serva combattere per affermarsi, ma una lotta singola diventa vana e faticosa. Ci viene allora in soccorso la possibilità dell’incontro tra persone diverse. Grazie al workshop per persone con disabilità motoria condotto al teatro Il Lavatoio dalla performer Chiara Bersani, si è formata una comunità con un nuovo linguaggio fatto di gesti e sguardi che creano una connessione forte tra i ragazzi e le performer. Talmente forte che i partecipanti sono stati chiamati a prendere parte alla performance (nel) SOTTOBOSCO, che diventa un rito di comunità dove tutti, nessuno escluso – compreso il pubblico – ha la sensazione che è possibile accogliere l’altro senza barriere.
(nel) SOTTOBOSCO è una performance sui corpi altri: ognuno di noi nasce con un corpo unico, pur vivendo in una società che impone determinati standard di presunta normalità. Ma è anche un’opera che pone lo spettatore davanti alla realtà, con un filo che unisce e guida il percorso narrativo. Noi spettatori siamo accolti da un orizzonte rurale che ci fa immergere nello spazio performativo; l’attesa è cullata dai suoni di una mietitrebbia che passa di lì per caso, interrotta dal lento ingresso di una figura che piano piano si avvicina e si trasforma per entrare nel sottobosco. Due corpi in scena (Chiara Bersani ed Elena Sgarbossa) e in sottofondo il frastuono del mondo (la musica di Lemmo) esplorano lo spazio fino a incontrarsi, intrecciarsi e contaminarsi per poi distaccarsi. Ma ecco che, dopo l’incontro, qualcosa rimane dentro di loro come una connessione, creando una sincronicità di azione e movimento fino ad arrivare a un nuovo contatto, durante il quale gli sguardi profondi si toccano e accade la magia dell’abbandono da una parte e dell’accoglienza dall’altra.
Tommaso Daffra
Tiran Willemse, Blackmilk
Una stanza illuminata dal sole, fumo bianco, rumore della pioggia che cade dalle grondaie. Un uomo incappucciato di nero entra in scena. È scalzo, ha il volto invisibile. Inizia a produrre gesti meccanici in modo meticoloso e ripetitivo, tanto da portarci a chiederci se smetterà mai di fare questo movimento. Sì, smetterà, ma ne comincerà subito un altro completamente diverso, più leggero, più blando. E così procede lo spettacolo Blackmilk di Tiran Willemse: gesti ripetuti per interminabili minuti, dalle accezioni così contrastanti da farti mettere in dubbio il filo logico, da farti sentire inquieto, frustrato, arrabbiato. Danza oppure no? Cosa sta facendo? I gesti che produce il performer sono quelli delle majorette che marciano, poi delle dive dell’opera, poi dei rapper africani e afroamericani. La musica e i suoni che accompagnano i suoi movimenti rispecchiano lo stato d’animo mutevole dell’artista sul palco, e andando avanti, gesto dopo gesto, ci fanno sentire sollevati, rinati, leggeri.
Alla fine della performance Willemse non indossa più il cappuccio, ma nonostante ciò sembra che nessuno lo possa vedere davvero. Pronuncia a ripetizione la frase «Now you see me? No, you don’t», intriso di una molteplicità di storie diverse che si toccano e si scontrano, si abbracciano e poi si uccidono a vicenda, ma alla fine coesistono e basta. Il tema della ridicolizzazione della mascolinità nera arriva da Willemse come un pugno allo stomaco, ribaltando i luoghi comuni e facendo luce su questa realtà a noi sconosciuta.
Elena Tassinari
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.