Dove eravate tutti (2011). Da qualche anno si occupa anche di drammaturgie in collaborazione con l’attuale direttore di ERT, Claudio Longhi, per il quale ha scritto Istruzioni per non morire in pace nel 2015 e ora La classe operaia va in paradiso, messinscena dell’omonimo film di Elio Petri. Lo spettacolo ha debuttato allo Storchi di Modena il 31 gennaio scorso e ora arriva a Bologna all’Arena del Sole dal 14 al 18 febbraio. Qualche giorno fa abbiamo incontrato Paolo Di Paolo per farci raccontare quale è stato il lavoro di costruzione drammaturgica de La classe operaia va in paradiso e come, insieme alla compagnia e al regista, ha affrontato la trasposizione dal cinema al teatro. In fondo al testo si trova l’intervista video (a cura di M. Cicciarella, I. Cecchinato, F. Mazzarino, M. Napoli). La classe operaia va in paradiso è uno spettacolo che nasce da un prodotto cinematografico. Come ha lavorato per adattare il film alla scena e quali sono state le difficoltà? Comunemente per “adattamento” si intende il passaggio di un testo da un contenitore a un altro nel quale dovrebbe conformarsi. Per il nostro lavoro dunque non parlerei propriamente di adattamento, in quanto abbiamo cercato di rompere il contenitore: abbiamo smontato il testo di partenza, ovvero la sceneggiatura de La classe operaia va in paradiso, per poi rimontarlo. In questo riassemblaggio, non sono stati tanto i passaggi narrativi del film a essere essenziali, quanto piuttosto il contesto attorno al film, cosa c’era prima e cosa dopo, qual è stata la ricezione. Abbiamo insomma tentato di chiamare in causa tutti i meccanismi di raccolta di sensazioni che potevano essere state determinate dal film sul pubblico. Tutto questo, ricomposto, è diventato un racconto completamente alternativo. Oltre alla sceneggiatura di Elio Petri e Ugo Pirro, vi siete ispirati ad altri materiali? Sì, nello spettacolo sono entrati anche altri materiali e questa è una dinamica tipica del lavoro di Claudio Longhi e della sua compagnia. Lo stesso è avvenuto per lo spettacolo Istruzioni per non morire in pace (2015), in cui ci siamo serviti di tanti elementi spuri e disomogenei rispetto al testo di partenza. Nello specifico de La classe operaia va in paradiso, abbiamo lavorato molto sulla letteratura industriale, di fabbrica: ci siamo affidati in particolare alle voci di Sanguineti, Pagliarani e Volponi. Esse sono presenti nello spettacolo, ma tutte nascoste, nulla è trasparente. Per fare un esempio a riguardo, nello spettacolo facciamo uscire dal cinema una spettatrice che si chiama Carla, evocando così Elio Pagliarani autore de La ragazza Carla (1959). Non ha importanza che lo spettatore si accorga della citazione, è importante per noi. È un po’ il criterio che presiedeva al lavoro compositivo di Rauschenberg, un artista americano di metà Novecento: egli gettava oggetti su una tavola o su una tela, buttati lì in modo apparentemente casuale, ma che dovevano dare il senso del tempo. Stava allo spettatore poi riconoscerne i nessi. Ecco, a me sembra di aver fatto un lavoro simile: abbiamo letteralmente buttato dentro lo spettacolo oggetti narrativi provenienti dal periodo storico che volevamo raccontare per ricrearne il clima e ricostruirne l’atmosfera. Gli attori del film, come Volonté e la Melato, hanno fortemente caratterizzato i personaggi a partire dalla loro personalità artistica. Qui si tenta un calco o il percorso è diverso? Come avete giustamente osservato, i personaggi del film La classe operaia va in paradiso sono così forti perché connotati da attori molto forti, ed è quindi molto difficile slegarsi dall’interpretazione di Volonté, della Melato e di Randone. Questo lo dico un po’ sorridendo perché è più un problema degli attori che mio, il confronto è stato loro e ovviamente hanno dovuto trovare una strada che non fosse di pura e semplice imitazione. Credo che lo spirito di Diana Manea, Lino Guanciale e degli altri attori sia stato quello di trovare una loro via rispetto al personaggio, tenendo conto dell’interpretazione degli attori del film. Dal punto di vista strettamente drammaturgico, si è compiuto lo stesso lavoro che abbiamo applicato al complesso dello spettacolo: si è tentato di smontare i personaggi. Per esempio, prendendo la prima versione della sceneggiatura di Petri e Pirro, l’ambientazione non era milanese ma romana, e Lulù (che aveva anche un altro nome, forse Flavio o Cesare) parlava in romanesco. Questo rendeva il clima completamente diverso, anche dal punto di vista meteorologico: la nebbia e il freddo evocati nel film, probabilmente in una ambientazione romana sarebbero stati meno pertinenti e dunque meno accentuati. In accordo con il regista e con la compagnia, si è deciso di mostrare in scena la trasformazione di Lulù da romano a milanese. Destrutturare i personaggi, dunque, significa ricondurli a una dimensione narrativa capace di disorientare anche per lo spettatore più accorto. [caption id="attachment_1567" align="alignnone" width="850"] La compagnia de “La classe operaia va in Paradiso”[/caption] Crede che questa operazione, ovvero la trasposizione dal cinema al teatro, possa dare un valore aggiunto rispetto al film? Verrebbe facile dire che il principio è quello dell’attualizzazione, anche se credo che solo in parte sia vero. Tuttavia, io proverei a rovesciare anche questo concetto. Attualizzare significa prendere una cosa e spostarla in un altro luogo e tempo. In realtà non è così, perché se io vedo oggi il film La classe operaia va in paradiso lo sto guardando e leggendo nel presente, quindi è già un oggetto attuale: la mia capacità di lettura e di reazione è contemporanea alla visione. A teatro, questo aspetto è ancora più radicale: non c’è bisogno di attualizzare perché quello che accade davanti agli occhi dello spettatore accade nel presente, nell’hic et nunc dell’evento. Tra il pubblico ci sarà colui che ha memoria di ciò che vede, ma anche colui che se ne è dimenticato un pezzo, quello che improvvisamente è sorpreso dal ricordo, o lo spettatore completamente vergine rispetto a quell’oggetto. Si è spettatori di una determinata serata, non di quella prima né di quella dopo, nemmeno se una stessa persona tornasse a vedere lo spettacolo più volte, perché, per piccoli slittamenti o assestamenti di identità, e avendo già visto lo spettacolo, si è diversi così come diversa sarà l’esperienza. A me, dunque, interessava vedere che tipo di attrito avrebbe prodotto quell’oggetto col presente, col 2018. Quello che accade rispetto allo spettacolo dipende dal pubblico: se vi riconosce delle tensioni che lo riguardano, che lo coinvolgono, che lo interrogano, tanto di guadagnato. Se invece l’oggetto gli appare del tutto fuori tempo rispetto al calendario interiore, evidentemente c’è qualcosa che si è staccato rispetto ai meccanismi di ricezione. Noi cerchiamo di aprire un dialogo con lo spettatore, su quello che accade ed è accaduto, attraverso il prologo, un elemento di mia invenzione: un operaio della seconda rivoluzione industriale guarda alle generazioni future, e dunque all’intera storia operaia. Questo momento si apre e si chiude in se stesso, mentre il resto del testo mostra allo spettatore un oggetto che non vuole dirsi per forza attuale. Ognuno ha la sua risposta a riguardo; a noi infatti interessa la domanda che lo spettacolo può generare. È da tenere in considerazione, inoltre, che parlare di classe operaia oggi non è la stessa cosa che parlarne nel ’71-‘72. Di certo esiste ancora, basti pensare agli operai di Amazon, ma è il modo che abbiamo di riconoscerla e raccontarla che è completamente diverso. Io non ho le stesse parole e la stessa capacità, anche dal punto di vista culturale, di raccontare la classe operaia di un autore di 45 anni fa. Se tutte queste forze entrano in gioco, lo spettacolo, pur nella sua complessità, arriva al suo obiettivo: porre, anche radicalmente, degli interrogativi senza fornire in automatico delle risposte.
Ilaria Cecchinato, Ornella Giua , Sofia Longhini
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.