Resta dunque da chiedersi cosa spinga ad andare avanti sapendo di attraversare un deserto, e senza intravedere mura sicure nel cammino. Resta da domandarsi se ci sia oggi qualcuno in grado di manifestare la consapevolezza insita nella domanda, mettendo così in discussione i propri mezzi: i linguaggi, le estetiche generate, le convinzioni teoriche consolidate. Si continua in ogni caso a credere nel valore dell’opera d’arte, e di alcuni ormai rarissimi artisti, in modo che fungano da avanposto in grado di farci vedere le cose con un po’ più di chiarezza, senza consolarci, al massimo accompagnandoci con uno sguardo lucido e feroce.
La maggiore dote del progetto All! di Kinkaleri sembra stare in questo sguardo analitico che non rinuncia a “proporre”, capace di farci vedere nell’opera i tanti discorsi che portano fuori da essa: il desiderio di ricostruire un alfabeto, azzerando quello che prima si era tentato, o almeno provando a ricominciare da capo; il nascondere tale desiderio fra le righe del corpo in movimento, lasciando lo spettatore di fronte a una danza ipoteticamente fruibile nella sua utopica astrazione; la volontà di avere come compagni di viaggio, sia in carne e ossa sia come maestri del passato, alcune figure che hanno sperimentato, che si sono domandate il “perché” delle cose, radiografando il principale codice dell’uomo (il linguaggio) ma allo stesso tempo servendosene come terreno di sperimentazioni per creare relazioni. Era accaduto con il William Burroughs di Fake For Gun No You, accade ora con Someone in Hell Loves You, spettacolo che del precedente lavoro risulta essere come un “lato b”, recentemente presentato al Terni Festival e a Contemporanea di Prato (rassegna ancora in corso, fino a domani 12 ottobre).
Alternandosi, Jacopo Jenna, Simona Rossi, Marco Mazzoni entrano ed escono dallo spazio. Il loro danzare è fatto di spigoli, di giunture che si piegano: un ginocchio alzato, un gomito piegato col braccio all’insù, una gamba slanciata all’indietro. Le sequenze gestuali procedono fluide, ma allo stesso tempo fanno in modo che si possano osservare le singole figure. Il corpo piegato in avanti con le braccia arcuate verso il basso, il corpo in piedi con le braccia entrambe stese verso l’alto, il corpo che salta, il corpo che esegue un giro su se stesso. Figure che, apprendiamo subito, sono la trascrizione gestuale dell’alfabeto: a ogni movimento corrisponde una lettera. Lettera dopo lettera, a venire “recitata” è la poesia ItDoesn’t Get Better di John Giorno, poeta americano pilastro della cosiddetta Beat Generation che compare nello spazio insieme ai tre danzatori per rispondere ad alcune domande. Perché hai accettato di lavorare con noi, i Kinkaleri? Che cosa è la rivoluzione? E una serie di altre questioni sugli anni newyorkesi con Andy Warhol, sulla vita al fianco di Burroughs, sul perché scrivere poesia. I tre pongono domande come sottovoce, nella seconda parte dello spettacolo, alternando al dialogo con il poeta la “spiegazione” dell’alfabeto al pubblico: «Un salto dopo la lettera significa che c’è una doppia» (mostrano il salto) «Dove eri l’11 settembre?» (rivolti al poeta), e Giorno risponde in tono colloquiale, spostandosi fluidamente nello spazio, mettendosi di lato ai tre danzatori, o dietro, o di fronte, secondo un ordine che pare dettato dall’intuizione ritmica di chi è abituato a comporre suoni, e a farli ascoltare, artefice come pochi di una poesia detta, “portata” di fronte a un uditorio. Mentre i tre utilizzano uno scheletro di cartone come cavia per far vedere al pubblico l’esecuzione delle lettere.
Non è di poco conto il frame coreografico che comprende Giorno dentro Kinkaleri, perché lì si cela la chiave che è in grado di scartare ogni retorica, di farci vedere un gruppo al fianco di un compagno di viaggio e non di un “monumento”, come fosse un fratello maggiore. Giorno risponde che ha iniziato a scrivere a scuola e non smetterà se non con la morte, che a New York ha vissuto in un periodo in cui accadevano con naturalezza tante cose e che le droghe servono per farci comprendere lati di noi stessi, e così via, in un dialogo che staremmo ad ascoltare ore ed ore per capire, imparare, trovare una chiave utile per i nostri giorni (a tal proposito, si può leggere l’intervista di Massimo Marino su Doppiozero)
Da un gruppo che ci ha mostrato negli anni la dissoluzione di ogni rappresentazione (come non fare altrimenti, ci sarebbe da chiedere a chi ancora crede nel “rappresentato”, in tempi di strategie di dominio e controllo fondate esattamente su meccanismi di rappresentazione!), da un gruppo e che si è recentemente riappropriato di testi di un certo canone novecentesco anticipatore del presente (da Genet a Brecht), ci viene ora un’indicazione che vorremmo essere in grado di saper cogliere, un po’ in tutti i campi. Sapere azzerare (ma rendendo chiaro quale sia il passato!), e saper ricominciare di nuovo, adesso, oggi. I Kinkaleri, nella presentazione del lavoro, affermano di volere scansare il potere, e in effetti ci mettono di fronte a corpi che stanno semplicemente “piegando un braccio”; corpi che si sottraggono, in fuga dall’egemonia del senso, tesi verso l’utopia della creazione di un movimento puro, tendente all’astratto, ma anche del suo contrario, quando puntano a creare un omologo della parola, un lemmario di gesti che spingono per diventare frasi (dunque narrazioni). È necessario dissolverlo il linguaggio, metterlo in questione, ma con un’attitudine che non si impantani nella dissezione.
Con un lieve sottofondo urbano in audio, oggi restiamo dunque “da soli” di fronte a quella potenzialità in nuce, perchè in fondo a emergere non è l’astrazione nè il suo contrario, ma quell’energia che li precede, quel corpo colto poco prima di significare, al riparo dal consenso della narrazione ma carico di tensione verso la relazione. Consapevole della necessità di cercare compagni di viaggio. Rip It Up ad Start Again!
(foto di Ilaria Costanzo)
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.