Questo articolo è frutto di una partnership tra Altre Velocità e Residenze Digitali
Dopo aver intervistato Lucia Franchi (direttrice artistica, insieme a Luca Ricci, di Capotrave/Kilowatt, curatrice di Residenze Digitali) e i protagonisti delle quattro residenze che hanno abitato gli spazi liminali tra teatro e streaming di quest’ultima edizione di Residenze Digitali, abbiamo visionato gli spettacoli, ci siamo posti delle domande e ne sono risultate quattro brevi impressioni. I lavori sono ancora in uno stato di studio, ma già s’intravedono traiettorie che più che poetiche spesso sono politiche, sociali, pragmatiche. Residenze Digitali è un progetto che non cerca di spostare il teatro dalle sue sale, ma è un tentativo di decifrare i nuovi linguaggi del performativo attraverso la rete e le professionalità che da anni interagiscono col mondo teatrale italiano. Secondo i dati forniti da Twitch in media nei canali italiani si sono visti 66.677 utenti collegati simultaneamente. Forse non molti sanno che anche i numeri del teatro sono in crescita. Il crescente bisogno di una performatività che non sia solo relegata allo scorrere annoiato di foto e video a bassa risoluzione, è ormai evidente a chiunque voglia riconoscerlo.
Spazio latente di Filippo Rosati (Umanesimo Artificiale)
L’avvio della diretta Twitch di Umanesimo Artificiale per Spazio Latente ci disconnette dalla realtà, l’impatto è forte e disturbante, sembra paradossale trovarsi faccia a faccia con un drone all’interno di uno schermo. Il velivolo inizia a muoversi, producendo quel rumore fastidioso e invadente che siamo abituati ad ascoltare quando lo vediamo volare e attorniarci nel mondo reale. A un tratto siamo all’interno del grande occhio, nel cervello di P1: riviviamo i suoi ricordi, immagini a contorni sfocati, flash su alcuni dei momenti che hanno impattato sulla sua vita. P1 si presenta, ci parla della scelta di sottoporsi a un intervento di hackeraggio del cervello per operare sulle sue memorie e apre un momento di confronto. L’istinto umano fa scatenare nella chat le prime domande più impellenti sul senso di paura e poi i dubbi più intricati sull’identità e sulla natura della coscienza. Complessi problemi di etica sembrano trovare risposte velocissime, chiare, ci riconducono a spiegazioni lineari in un meccanismo di relativizzazione della vita umana. Le interazioni con P1 ci spingono in una riflessione sulla natura inevitabilmente caotica della nostra condizione e sui confini labili tra io e l’altro, tra la nostra essenza iniziale e i gesti e i momenti che hanno contaminato quest’ultima, incidendo in modo irreversibile sulla nostra identità.
Il teatro anatomico progettato da Umanesimo Artificiale è una sala operatoria insolita; al centro una poltrona, P1 ha la testa appoggiata allo schienale della sedia, è sveglio, sembra totalmente cosciente, assiste all’operazione impassibile, sbattendo di tanto in tanto le ciglia color ghiaccio. Intorno a lui svariati macchinari in movimento, che con gesti decisi, puliti, netti operano sulla sua “scheda di memoria”. Poi il via al processo di resettaggio del cervello di P1, le parole in chat diventano armi, prompt, semplici comandi per rimuovere irreversibilmente vecchie immagini e memorie, innestandone di nuove. Seduti sulla poltrona di casa nostra, davanti allo schermo, ci troviamo ad arredare il sistema neurale di P1, scegliamo cosa buttare via, cosa spostare e cosa aggiungere. Finita la procedura di resettaggio, gli occhi indecifrabili e a tratti robotici di P1 ci interrogano sull’esperienza: ci sentiamo complici o spettatori? L’impatto continua a essere forte e disorientante: senso di potere e distacco si mischiano a sensazioni di paura, accortezze ed empatia. Spazio Latente ci spinge dentro una riflessione sul confine sfumato tra dimensione organica e digitale. È davvero necessario che l’altro sia al comando delle nostre sinapsi per incidere sui nostri ricordi? Siamo davvero padroni di scegliere quali eventi far intercedere sulla nostra vita? Quanto questo teatro anatomico differisce dalla dimensione caotica della vita reale?
Non Player Human di Simone Arganini, Rocco Punghellini
In diretta su Twitch, un Non Playable Character (quelli con cui nei videogiochi non puoi giocare, i personaggi controllati dal computer) in carne e ossa si annoia sul divano. Magari invece sta pensando. O forse si sta riposando. Ma tanto decide tutto il pubblico, quindi di certo sdraiato a pancia all’aria per un’ora di spettacolo, a tutto schermo sul computer, non ci può stare. Si potrebbe affacciare dalla finestra, così da capire dove si trova; chissà dove si sta svolgendo la performance. Ma niente, la democrazia vige sullo strumento di potere che il pubblico possiede: nella chat della live si vota quale delle tre o più azioni che vengono offerte dai creatori far compiere a questo sconosciuto. Il pubblico di sabato 30 dicembre decide che è meglio che si faccia una doccia, per svegliarsi un po’, per essere più produttivo. Scorre un brivido, la possibilità che il pubblico (davvero) possa incidere sulla noia, sull’intrattenimento, sul carattere dello spettacolo. Riuscirà a fare un buon lavoro? Giocano tutti, anzi: giochiamo tutti, portandolo da una parte all’altra della casa. Doccia calda o fredda, vestiti da Ken (il tipo di Barbie) o da tennista vecchio stile? La maggior parte dei nostri nickname non corrisponde al nome di battesimo, così ci prendiamo pure la libertà di fare apprezzamenti sul giovane corpo del burattino.
Eppure ci sono quei guizzi che, se si sta ben attenti, ci fanno intuire che non è esattamente tutto sotto il nostro controllo: il tetto in legno e il vestiario, che sembrano tradire un gusto, le emozioni, quelle vere, del proprietario di casa. Si prende gioco di noi, mentre finge di rasarsi i capelli a zero: in realtà piovono ciocche di parrucche. Tiene troppo ai suoi ricci. E il suo desiderio più grande è forse davvero quello di esprimersi nella danza finale, costretto nel salotto che comunica con la cucina, tra il divano e il tavolo, nei pantaloni e nella giacca jeans da Ken, costretto nel nostro sguardo da casa, nell’inquadratura ravvicinata. E non è dimenticabile il suo di sguardo, quando si rivolge all’obiettivo e in silenzio si vede scorrere l’io dei suoi pensieri nei sottotitoli, mentre provi a cogliere quel corrucciarsi di sopracciglia quasi invisibile. È passata un’ora ma sembra una giornata. Siamo stanchi perché è come se ogni azione che abbiamo deciso l’avessimo portata avanti noi. Nel beffardo e arguto ritmo di questo piccolo videogioco mi chiedo: ma lo vogliamo davvero il controllo?
Radio Pentothal di Ruggero Franceschini
È difficile capire attraverso quali frequenze ascoltiamo Radio Penthotal. Nel fuori onda sentiamo suoni e testimonianze dallotte bolognesi degli anni Settanta, mentre luci rosse e un’atmosfera precaria ed elettrica invade lo schermo; si contano poche teste ma ti sembra comunque un alveare. Un luogo che nell’immaginario dovrebbe (o avrebbe dovuto) fare la storia, nel senso proprio di cambiarla. (Ascolto da via Mascarella le testimonianze delle reazioni alla morte di Lorusso, io mi trovo proprio nel sito archeologico, nel luogo della memoria). Ma si va in onda in questo strano 1977-2024. Il quartier generale è in diretta su Zoom, tre telecamere: una inquadra un lato della stanza in cui è proiettato lo schermo di un computer, la seconda ha l’aria di seguire la regia, mentre la terza è quella principale, che invade i dispositivi di tutti gli spettatori. A mezzo busto, vediamo alternarsi i presentatori e gli ospiti del programma, che si chiamano con nickname-nomi di battaglia che ricordano tutta l’aura di quel periodo, dei suoi artisti, dei suoi fuochi, di quella che era ancora un’alternativa.
Ma su Radio Pentothal non c’è niente di serio, a parte le domande piene di riferimenti colti, profondi, politici del pubblico che si esprime sulla chat. Peccato che non siano gli ospiti esperti a rispondere, ma proprio un’intelligenza artificiale, dalla quale sbirciano palesemente (vedi telecamera uno), con un tono che scimmiotta quello impegnato e che ne sa. C’è persino una retata della polizia, le comunicazioni sono costrette a interrompersi. Gli autori ammiccano ai nostalgici, che si divertono, tra un brano finto e l’altro. Ma forse è proprio lì che sta l’inganno, che sorge il dubbio: è satira quella che stiamo ascoltando? E ce ne stiamo accorgendo tutti? Radio Pentothal è immersiva, canzonatoria, divertente, anche se forse servono i giusti anticorpi per godersela davvero. Ci hanno invitato più volte ad ascoltarla mentre facciamo altro, azione che pure i vituperati giovani sanno fare bene, con tutti i tipi di podcast disponibili ogni giorno. Il tempo per entrare dentro Radio Pentothal è pochissimo, dispiace che finisca. Perché ci si trova a domandarsi come sarebbe potuta andare oltre, quando sarebbe arrivata a parlare di noi e di oggi. Nella satira, forse è la radio (o meglio, ancor più precisamente le trasmissioni, l’intrattenimento che si ascolta) più che la controcultura, a uscirne meglio, quella che tra le due è più attuale che mai.
Metabolo II: Orynthia di Valerie Tameu
Sparsi intorno al computer un bicchiere in vetro pieno d’acqua, un fiammifero, una manciata di sale, un rametto di rosmarino essiccato, un foglio e una penna; questi gli oggetti che Valerie Tameu ci invita a preparare prima di varcare la soglia di Metabolo II: Orynthia. La performance si apre in uno spazio altro, entrati nella stanza di Twitch ci troviamo a camminare virtualmente su una distesa d’acqua solcata da colonne che ricordano quelle di un tempio greco, una piattaforma estesa e ben delineata che fluttua nello spazio. Quindici minuti di tempo lasciati in mano allo spettatore, per esplorare, ambientarsi, muoversi su questa superficie, scovare oggetti parlanti, simboli, danze folkloristiche e trovare la porta di passaggio verso il livello successivo. Valerie Tameu, mediatrice tra il nostro mondo e questa piattaforma sommersa, ci inizia a questo rituale cyber-magico: attraverso l’utilizzo degli elementi preparati ci guida in una riflessione sulle potenzialità dell’acqua. È un momento spirituale vissuto all’interno di una comunità, quella di noi spettatori; una spiritualità che si traspone usando i mezzi propri della dimensione digitale: la chat diventa una piccola assemblea, da cui emergono prospettive e suggestioni differenti su questo elemento. L’acqua che purifica, scalfisce, si adegua, prende ogni forma, distrugge, disseta, annega. Tameu ci chiede di affidarci al potere di questo elemento, lasciando che la natura agisca e generi energie in risposta ai nostri bisogni.
La seconda parte della performance segue la linea di intreccio tra gli elementi naturali: il corpo umano e l’acqua. L’artista muove le sue dita all’interno di bicchieri colmi d’acqua, il moto ondoso produce dei suoni; sullo schermo un corpo fluido manifesta una danza, movimenti sfrenati e ripetitivi che seguono il ritmo, si abbandonano a questa liquidità, generando un’immagine quasi ipnotica per noi spettatori. Più che uno spettacolo, Metabolo II: Orynthia appare come un rituale, una pratica di magia. Mettendo in campo non solo le forze ed energie spirituali ma anche strumenti altri, dimensioni virtuali e onde di propagazione, Valerie Tameu tenta di proporci una nuova modo per riconnettersi ed abbandonarsi all’elemento naturale. Una strada impegnativa che fa i conti con la dimensione materiale: la complessità e meccanicità introdotta dal mezzo digitale tradiscono la sacralità dell’atmosfera, interferendo sul libero e spontaneo abbandono verso questa dimensione spirituale.
Illusioni reali e realtà digitali
Il performativo digitale già tempo sta influenzando la nostra visione del teatro. Compagnie come Agrupación Señor Serrano da più di un decennio mescolano i linguaggi della diretta televisiva con l’immediatezza e l’interazione del web sulla scena. In Italia tanti gruppi emergenti propongono soluzioni ancora più radicali, chi da un punto di vista fortemente estetizzante (penso alle proiezioni glitch-gothic di Romantic Disaster di madalena reversa), chi per gli aspetti interattivi (i Malmadur di Humo Ludens, 50 minuti di ritardo e La più grande tragedia dell’umanità), chi attraversandone la cultura (in Sciaboletta di Alessandro Blasioli c’è la consapevole scelta di mettere tra le musiche quelle scritte da Lucas Pope per il suo Paper, Please, ma perfino in un lavoro come L’Angelo Della Storia di un gruppo tutt’altro che emergente come Sotterraneo è presente un remix del celebre tema musicale di Stronghold, videogioco culto di Firefly Studio dell’ormai lontanissimo 2001). In La più grande tragedia dell’umanità,tra un genocidio e un attacco di colite, al pubblico viene concessa ogni tanto una “pausa” proiettando video da TikTok di gattini che fanno cose buffe. Non esiste più una vita alias nel web e una IRL (“in real life”), perché i linguaggi dell’uno contaminano l’altro modificando il modo con cui raccontiamo ciò che ci circonda. Eppure potremmo dire che è sempre stato così, solo che ce ne dimentichiamo. Il mondo naturale è il teatro di una illusione collettiva che chiamiamo esperienza, alla quale siamo talmente abituati da non farci caso, eppure questa sappiamo essere è una messa in scena che il nostro cervello dirige per ottimizzare le nostre possibilità di adattamento. Il web, invece, è la prima realtà pensata e costruita a misura d’essere umano, è quasi come se attraversando lo specchio non trovassimo un altro mondo, ma noi stessi.
Recensioni di Maura De Benedetto e Francesca Lupo.
Coordinamento di Giuseppe Di Lorenzo