A partire dalla scelta di cosa guardare su una piattaforma di streaming, dall’approvazione di un mutuo, dalla diagnosi medica o, più banalmente, dalla selezione del percorso più rapido da seguire, lasciamo – sempre più spesso – che siano gli algoritmi a indicarci la strada. Il crescente affidamento sui sistemi algoritmici e sulle loro capacità predittive sta cambiando radicalmente il modo in cui prendiamo decisioni: fino a che punto, individualmente e collettivamente, veniamo influenzati da processi informatici di cui non siamo nemmeno consapevoli?
È la domanda che attraversa Remote Pesaro, performance del gruppo teatrale tedesco Rimini Protokoll andata in scena durante le giornate di ottobre 2024. Si tratta di un progetto “site-specific” presentato per la prima volta a Berlino nel 2013 che, sotto il più ampio titolo di Remote X, è stato sucessivamente adattato in tutto il mondo – da New York a Copenaghen, da Zurigo a Bangalore, da Parigi a Gerusalemme. Remote Pesaro è l’ultima variante di Remote X e la seconda in Italia, dopo Remote Milano svoltosi nel 2014. Nella tappa marchigiana, il progetto ha coinvolto un gruppo di quaranta persone chiamate a esplorare la città indossando un paio di cuffie: una voce disincarnata e digitale sussurra istruzioni, guidando i partecipanti attraverso vari spazi urbani – cimiteri e ospedali, chiese e stazioni, piazze pubbliche e tetti privati. È importante chiarire, tuttavia, che Remote Pesaro non è affatto un semplice tour della città. Lungo il percorso, il focus della voce narrante si sposta gradualmente sul nostro comportamento, sia come individui sia come gruppo, mentre esamina i sistemi psicologici, sociali e politici che ci governano.
L’obiettivo è dunque quello di portare il gruppo, denominato “orda” dal navigatore, a riflettere su come vengono prese le decisioni collettive quando ogni membro del gruppo è guidato da un algoritmo: quali saranno le conseguenze per il gruppo (e per lo spettacolo) se uno dei suoi membri adotta comportamenti devianti? Fino a che punto accettiamo o mettiamo in discussione la logica e il potere degli algoritmi che ci guidano? Difatti, quella voce digitalizzata che ricorda la voce nei navigatori GPS, rappresenta i complessi algoritmi che, più o meno consapevolmente, guidano le nostre azioni. Tuttavia, è fondamentale precisare che, nelle cuffie, non c’è un vero sistema informatico guidato da un algoritmo – come ha precisato lo stesso Stefan Kaegi dei Rimini Protokoll. Questo significa che nelle performance di Remote X viene rappresentata un’intelligenza artificiale (IA), senza che ci sia un effettivo utilizzo della stessa. L’obiettivo è appunto quello di mettere in scena i meccanismi di funzionamento della tecnologia, senza usarla direttamente, per poterne affrontae, tramite l’attività artistica, le questioni sociali che scaturiscono dalla diffusione del suddetto dispositivo tecnico. Questo tipo di operazione effettuata da Rimini Protokoll è quindi in linea con molte delle produzioni artistiche degli ultimi decenni: nell’estetica post internet, ad esempio, gli artisti esplorano le tematiche e la portata culturale della rete senza necessariamente impiegare questa tecnologia come supporto per la creazione delle opere. Gli eventi BYOB di Rafaël Rozendaal ne sono un perfetta testimonianza, dal momento che riflettono contenutisticamente le dinamiche e l’estetica della rete Internet, senza però direttamente affidarsi a quest’ultima.
Attraverso Remote Pesaro possiamo dunque osservare come i sistemi di IA abbiano cominciato a determinare una specifica forma estetica che può essere assimilata e rappresentata, a partire dalla costruzione del testo drammaturgico fino agli elementi sonori utilizzati per dar voce al testo. In altre parole, la voce narrante di Remote Pesaro può essere considerata una sorta di “attore” che interpreta e rappresenta un’IA. Questa operazione di mediatizzazione effettuata da Rimini Protokoll è esemplificativa del fatto che l’influenza dei nuovi media non si limita al loro impiego materiale, ma anche all’impiego dei loro formati e linguaggi; in questo caso, l’operazione di mediatizzazione consiste proprio nel recupero delle grammatiche della comunicazione artificiale. Difatti il concetto di mediatizzazione negli studi performativi non riguarda solo l’uso delle tecnologie in scena, ma concerne proprio l’assunzione delle logiche, dei frame e dei formati mediali (come ricordano Laura Gemini e Stefano Brilli in Gradienti di Liveness. Performance e comunicazione dal vivo nei contesti mediatizzati). Seguendo le riflessioni di Irina Rajewsky nei suoi studi sull’intermedialità, potremmo allora affermare che Remote Pesaro è basato su una intermedial reference: nella performance non c’è un effettivo passaggio di un contenuto con un’IA, poiché a essere mediatizzata è l’esperienza di aver a che fare con un algoritmo intelligente.
Da un punto di vista drammaturgico, la messa in scena di un’IA diventa anche cruciale per affrontare efficacemente le tematiche di stampo “transumanista” che emergono durante la performance: sin dalle prime battute, la voce algoritmica abborda riflessioni sulla caducità della vita e sulla crescente difficoltà di distinguere il naturale dall’artificiale, suggerendo che, forse, in un futuro non troppo lontano, l’IA potrebbe persino aiutarci a superare la morte. Il movimento transumanista auspica infatti, attraverso il progresso tecnologico, un’emancipazione dai limiti naturali che ci rendono vulnerabili, fallibili e mortali. L’obiettivo finale, esplicitato da organizzazioni come 2045 Initiative, sarebbe quello di trasferire e replicare tutte le informazioni della nostra mente in un sistema libero dai limiti fisici, consentendoci di esistere come puro pensiero algoritmico, integrato con una super-intelligenza artificiale in grado di rispondere a ogni nostra domanda e consentendoci di vivere in uno stato di eterna beatitudine. L’avvento e il progresso di sistemi di IA riescono così persino a spostare il baricentro delle discussioni intorno all’immortalità: se in passato la morte era dominio di preti e teologi, oggi il compito di affrontarla è passato agli ingegneri e scienziati (un passaggio messo in luce, fra gli altri, da Yuval Noah Harari in Homo Deus). Durante la performance, questa narrazione non è mai resa in modo esplicito dal navigatore, ma emerge gradualmente attraverso il percorso che l’algoritmo fa compiere all’orda. La passeggiata guidata dall’IA nella città di Pesaro è scandita infatti da tre luoghi simbolici: il cimitero centrale di San Decenzio, l’ospedale San Salvatore e la chiesa della Madonna delle Grazie. Le riflessioni transumaniste suggerite dall’algoritmo si intensificano proprio grazie all’attraversamento di questi spazi, rendendo così l’azione di spostamento dei partecipanti fondamentale per l’emergere stesso della narrazione.
Inoltre, mentre l’orda percorre la città per visitare questi luoghi di interesse, una colonna sonora e registrazioni binaurali scandiscono il passo e il ritmo della camminata, rendendo l’esperienza di questa promenade molto simile ad un’esperienza cinematografica. La città si trasforma cioè in una serie di sequenze visive dove i cittadini stessi sono attori di una narrazione collettiva. Questa dimensione filmica, enfatizzata dall’azione combinata della voce narrante e della colonna sonora, permette ai cittadini partecipanti di adottare un nuovo sguardo su Pesaro, rendendoli turisti della loro stessa città. In maniera analoga alle pratiche dell’Internazionale Situazionista nella Parigi degli anni ’50 e ’60, che de-costruivano il percorso urbano per riscoprire la città, Remote Pesaro rompe così l’automatismo del passaggio urbano. Questo cambio di prospettiva diventa fondamentale per permettere ai partecipanti di prendere consapevolezza delle proprie scelte durante l’attraversamento della città, spingendoli a riflettere sulle decisioni che ognuno di loro compie nel corso dello spettacolo: come reagiamo quando, durante la performance, il navigatore ci chiede di camminare al contrario? Come reagiamo quando poi ci viene chiesto di ballare nel mezzo di Piazza del Popolo, oppure di prendere parte a un flahsmob? Se il gruppo (e dunque la società) decide di abbandonarsi completamente alla guida degli algoritmi, che ne è della libertà di decisione del singolo? Proprio a partire da questa consapevolezza, scaturisce la domanda che ci siamo posti in partenza: quante delle nostre decisioni saranno sempre più condizionate da indicazioni generate da sistemi di intelligenza artificiale?
Tuttavia, mentre l’orda diventa sempre più consapevole delle forze esterne che cercano di influenzare o controllare le sue scelte, emerge anche un aspetto affascinante e paradossale: il piacere stesso dell’essere guidati. Come dichiara Kaegi in un’intervista contenuta nel libro Scrivere con la realtà. Oggetti teatrali non identificati di Lorenzo Donati:
Nei libri di Yuval Noah Harari ricorre una tesi: si sostiene che l’essere umano, storicamente, finga di volere la libertà. Liberandosi dalla religione, potendo scegliere il proprio sesso, combattendo le malettie, dotandosi di sistemi di governo democratici. Ma se guardiamo nel dettaglio, stiamo di fatto esternalizzando le nostre decisioni, è in atto un processo outsourcing sempre più vasto: decidono al posto nostro i dottori, i programmatori, le corporation. Quella che vogliamo è una percezione di libertà, alla libertà si è sostituita la sua percezione.
Il piacere che proviamo oggi nell’affidarci agli algoritmi non è altro che il prodotto di questa dinamica, dal momento che questi sistemi preservano una parvenza di libertà, mentre in realtà assorbono progressivamente la nostra responsabilità decisionale. Possiamo considerare questa dinamica come una forma di illusione di autonomia: ci sentiamo liberi perché scegliamo tra possibilità che ci vengono presentate, senza renderci conto che queste possibilità sono già state filtrate e strutturate da algoritmi. Ad esempio, il piacere che proviamo nell’usare piattaforme come Tik Tok, Netflix, Spotify o Amazon non risiede nella libertà assoluta di scegliere qualsiasi contenuto, ma nella comodità di avere a disposizione opzioni selezionate su misura per noi. Qui gli algoritmi imparano gradualmente a riconoscere i nostri gusti e anticipare le nostre preferenze, e il piacere di utilizzo del media, è intensificato proprio dal potersi “abbandonare” senza il peso di dover prendere decisioni. Nell’atto di non scegliere, di scorrere passivamente contenuti che sembrano fatti su misura per noi, si instaura così una sorta di fiducia che toglie la fatica del discernimento. Questa fiducia cullante non è passiva ma innesca una risposta emotiva, un legame che si costruisce con il sistema stesso.
La gratificazione nasce dall’illusione che la tecnologia comprenda le nostre intenzioni e inclinazioni, offrendo contenuti ed indicazioni che sembrano allineati alla nostra identità. In realtà, come chiarisce Elena Esposito in Comunicazione artificiale. Come gli algoritmi producono intelligenza sociale, le IA non sono dotate di una reale comprensione: «Gli algoritmi sembrano intelligenti e funzionano come se fossero intelligenti non perché comprendono ma perché sono in grado di prevedere». Dunque, abbandonarsi alla guida degli algoritmi vuol dire affidarsi alla loro capacità predittiva, al fatto che l’algoritmo calcolerà la giusta previsione per noi – benché questa rimanga una previsione priva di significato autentico. Jörg Karrenbauer, direttore creativo dell’adattamento di Remote X a Pesaro, si esprime in questo modo in merito alla pericolosità di questo processo: «Questo tipo di tecnologie pretendono di migliorare le nostre vite, di aiutarci nella nostra quotidianità guidandoci quando siamo nelle nostre automobile ma, potenzialmente, in futuro anche dicendoci che cosa dobbiamo mangiare, bere o pensare. Le compagnie di Big Data stanno già raccogliendo queste informazioni».
In altre parole, l’eccessiva dipendenza dalle indicazioni algoritmiche rischia di trasformarsi in una forma di controllo, ed è questo pericolo a essere messo in scena da Rimini Protokoll: l’aspetto perturbante di Remote X risiede proprio nella tensione tra l’inquietudine del controllo esterno e il piacere di cedere a esso. Non è solo una riflessione teorica, ma un’esperienza diretta e corporea: seguire la voce artificiale significa rinunciare, almeno in parte, alla capacità di prendere decisioni indipendenti, ma al contempo si scopre un piacere inaspettato nel lasciarsi guidare, nel ridurre il peso della responsabilità individuale e collettiva. Remote Pesaro dunque, oltre a configurarsi come una performance urbana, si presenta soprattutto come un esperimento sociale. Attraverso l’esperienza diretta di quel sottile e inquietante piacere nel abbandonarsi al controllo di un partner artificiale, la performance invita a riflettere sulle conseguenze che questo rapporto produce sulle nostre capacità decisionali.
L'autore
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nato a Rimini nel 1999. Dopo aver conseguito con lode la laurea triennale in DAMS e la magistrale in Arti Visive presso l’Università di Bologna, ha deciso di approfondire ulteriormente i suoi studi accademici. Attualmente, è dottorando in Scienze della Comunicazione e Cultura Digitale presso l’Università di Urbino Carlo Bo, dove si dedica a una ricerca interdisciplinare che esplora il rapporto tra intelligenza artificiale e performance artistiche