«Io formo un’immagine con il mio corpo che non ha un significato univoco. Se inclino la mia testa, ad esempio, posso dare la sensazione di nascondermi oppure di voler sedurre, mostrare una parte del mio collo. Mettiamo in scena, allora, un’immagine che non è neutra, in grado di trattenere un’infinità di letture e, così, chi guarda ne può generare altrettante. È la stessa cosa che accade nelle interazioni sociali che ci capitano nella vita di tutti i giorni: non abbiamo la più pallida idea di cosa vedano i nostri interlocutori mentre parliamo. Non è detto che ci sia una coincidenza tra quello che io provo a mostrare e ciò che si vede da fuori». Con Reface, una ricerca fisica e musicale basata sull’idea della trasformazione e presentata nel corso delle ultime due giornate all’interno dell’ultima edizione del festival Gender Bender negli spazi del DAS a Bologna, lo spettatore abita in un terreno grigio, laddove sul palco si genera un gioco ambiguo e libero tra ciò che si vede e ciò che accade. Ci sono tante immagini inventate che si generano ma non c’è una sola verità. Chandra Grangean e Lise Messina (Les Idoles), con alle spalle alcune esperienze nella coreografia in Francia, per quasi cinquanta minuti, con l’ausilio di pezzi di scotch, materiali colorati in lattice, parrucche, trucco e capi sformano i loro corpi, contraendo e rilassando i muscoli del viso, per dare vita a una sequenza lunghissima di ritratti e posture. Il fondale è costituito da uno sfondo piatto simile a quello degli studi fotografici: due tessuti bianchi si srotolano in lunghezza dal soffitto sino al pavimento, formando un angolo retto, e si spingono fino alla platea mimando la forma di una lingua. Le due performer non metteranno mai un piede fuori da questa superficie speciale, quasi uno schermo o spazio virtuale, origine di un enorme repertorio di creature. Una traccia musicale percorre l’intera durata del lavoro, tutta concepita e giocata sull’idea di movimento e mutazione grazie a continue transizioni, all’uso di suoni molto concreti, come quello delle bobine di pellicola che si percepisce all’inizio, e ai quattro altoparlanti disposti in alcuni punti dello spazio e mai attivati insieme.
A partire da un immaginario cinematografico, fotografico e artistico, che passa per autori come Jim Jarmusch, David Lynch, Ingmar Bergman, artiste visive come Nadia Lee Cohen e Cindy Sherman e i cartoon, gli occhi del pubblico attraversano una polifonia fulminea di screenshot e fotogrammi, riprodotti sui volti continuamente deformati delle due performer e sommati l’uno sull’altro attraverso passaggi mai netti. Effetto ottenuto, appunto, tramite l’assemblaggio di diversi elementi, incastrati, spostati o rimossi su occhi, naso, labbra, pelle, capelli, orecchie, simulando in scena vere e proprie tecniche analogiche, come quelle dell’assemblaggio o del collage. Come in una pesca onnivora, il duo si fa soggetto e oggetto della propria ricerca, ragionando attorno a tematiche legate alla manipolazione dell’immagine, consumando, compromettendo, problematizzando e ricostruendo ostinatamente l’immagine di se stesse. Un gioco tanto inquietante quanto attraente che ci restituisce una fisicità frammentata a cui non possiamo attribuire mai un significato univoco.
Articolo scritto da Damiano Pellegrino per Speciale Gender Bender 2024