Si sta seduti al centro dello spazio, sul pavimento di assi di legno dell’Ateliersi di Bologna. Non si sa bene dove guardare, finché su un lato entra una ragazza. È di spalle, sta di fronte a un fondale luminoso bianco, parla con qualcuno a cui sta dando indicazioni per un allestimento, come se stessimo sentendo una conversazione privata. La luce della sala si sposta in una zona a lei speculare, per guardare dobbiamo voltarci di 180 gradi. Una larga tela bianca copre gran parte dello spazio sul fondo. Entra un gruppo di allestitori con scotch, trapani, matite, pennelli, barattoli di tempera, pennarelli, viti, metri flessibili, livelle. Nel silenzio cresce un ritmo soffuso, che gradualmente si colora di attutite aritmie dubstep. Ci giriamo nuovamente, ora stanno di fronte a noi due bambine. Serissime, eseguono una sorta di partitura gestuale astratta, le braccia si tendono come a mimare un volo. Ci guardano. Dalla parte opposta intanto gli allestitori parlottano, impegnati in un compito che inizialmente appare una come la spettacolarizzazione di una sequenza di azioni “non rappresentabili”, azioni dunque che si fanno prima ma non sufficienti per essere mostrate (creano cornici con lo scotch, delimitano aree della tela, avvitano ecc.). Lacerti di un discorso iniziano a manifestarsi sulla tela, vengono create alcune scritte («tutt’apposto») al fianco di immagini di donne, sagome di mani, fotografie di ginnaste. È a questo punto che una vera ginnasta entra nello spazio e ci osserva con arroganza. Senza remore ci impone di spostarci. La vaporosità di quanto visto sinora, al limite fra rappresentazione e sua destrutturazione, assume un’improvvisa densità, anche qui siamo infatti al cospetto di una figura che recita se stessa ma in un contesto smaccatamente ricostruito, è improvvisamente “finta” e per questo più vera. La donna esegue un mantra vocale appena udibile, per prepararsi impreca e maledice mentre i subwoofer rintoccano colpi cadenzati come se qualcosa di minaccioso stesse per incombere. L’atleta indossa una tuta aderente scura, guarda noi e lo spazio, continua a prepararsi e a pensare la sua esibizione, noi continuiamo ad sentirla come se potessimo udire il brulicare dei suoi pensieri prima dell’atto.
Gradualmente la tela viene abitata e sempre più figure vi s’imprimono, si crea così un dialogo obliquo fra le sue figure e le presenze in carne e ossa. Vediamo una sequenza di aforismi visuali, parziale ricostruzione dell’opera Manuale della figura umana di Marta Dell’Angelo, pubblicata anche in forma di libro nel 2007 (edizione Gli Ori): immagini di tuffi, cornicette che contengono fotografie di gambe femminili, al centro disegni di mani che sembrano illustrare i segni dell’alfabeto per sordi, proverbi rivisitati che divengono quasi calembour («sono sempre gli stessi che se ne vanno», «occhio di lince cuore non duole»), la sagoma di schiena in bianco e nero di una donna nuda intenta a spiccare il volo apposta nella parte bassa della tela, sul limite destro una bambina inquietante dell’apparente consistenza di un cartoon digitale, citazioni sull’arte (Courbet: «Non posso dipingere quello che non vedo. Non ho mai veduto uomini con le ali. Come potrei dipingere un angelo?»). Poi altri disegni di corpi che sembrano citare gli aggrovigli di Escher, ma anche le curve in grafite di un Mannelli, solo per riferire due assonanze in una molteplicità di possibili rimandi.
Questo Manuale della figura umana. Allestimento di un impaginato firmato da Fiorenza Menni e dalla stessa Dell’Angelo (a cura di Ateliersi e Nosadella.due, visto in occasione di Artefiera il 19 gennaio 2016) riporta continuamente al centro un’interrogazione sul guardare, è una costruzione live di cornici che contengono cornici con all’interno altre cornici. Qui è come se l’opera dell’arte fosse il passaggio costante e fluido da una all’altra, con momenti di forte impatto e consapevolezza che si producono proprio quando ci si accorge di quei passaggi, come se lì ci fosse una possibilità più acuta per cogliere un lacerto di verità, come se lo sbandamento dell’arte potesse oggi prodursi con maggiore esattezza nello smontaggio del meccanismo del guardare, anche quando quello che vediamo o sentiamo ci appare falsoproprio in virtù di tale smontaggio (d’improvviso lo sguardo cade sulla consolle, si scorge allora il dj che con trasporto danza sulle sue stesse note. Ma quanto la sua danza “è danzata” dallo stereotipo che tutti abbiamo del clubbing? E quanto le sue melodie sincopate costruiscono un’atmosfera di accondiscendenza linguistica?). Ci si chiede dunque cosa ci sia dietro le cornici, cosa restrebbe se le togliessimo tutte. Che cosa vedremmo? Qui intanto siamo guidati a reimparare a vedere “i corpi”, dunque noi stessi e i nostri archivi di scomposizioni riassemblaggi ricostruzioni. Un’ipotesi credibile, e ce se sono pochissime, per una rappresentazione non menzognera della realtà.
foto di Luca Del Pia
L'autore
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Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.