A metà fra capriccio pittorico e ucronia (anti-)scenica: il corpo di François Chaignaud è un dispositivo centripeto, un acceleratore di immagini e immaginari. Quasi un vortice, che risucchia e agglomera dentro di sé divergenti possibilità di visione. Con Radio Vinci Park (di François Chaignaud e Théo Mercier, visto a Short Theatre) queste caratteristiche vengono quasi portate all’estremo, benché in maniera minuziosamente calcolata. Intanto, scordarsi palchi contropalchi o boccascena: lo spettacolo si svolge nel parcheggio di un grosso centro commerciale nella periferia di Roma70. Nel silenzio dell’area residenziale circostante e al buio della sera, incastonato fra i saliscendi delle strade, gli alti condomini a più piani e qualche piccola zona di verde, davvero sembra di essere in una mecca postmoderna, in un luogo di incroci imprevedibili. Dunque già parlare di “spettacolo” è improprio: siamo certamente più vicino al rito, al sabba, a un raccoglimento carbonaro. Senza però – come accadeva invece per altri lavori precedenti dell’artista, come Dumy Moyi– un sovraccarico mistico, né tribalistico. Anzi, si respira più una componente di prestigio e illusionismo, voglia di stupire: una “serata di divertimenti elettrici”, per pochi intimi.
Illuminata in un punto del parcheggio, un clavicembalo decorato con motivi dal sapore bucolico. Marie-Pierre Brébant vi suona alcuni pezzi di musica barocca e classica, attira su di sé e sulla vibrazione delle corde lo straniamento prodotto dal ritrovarsi in uno spazio iperurbano e ascoltare sonorità tanto “colte” e arcaiche. Un preludio, forse. Un concentrato di raffinate contraddizioni, in forma di omaggio scenico. Poi, con la musica che continua e viene diffusa attraverso degli amplificatori, tutto un altro fascio di attenzione si accende sul perfomer/mattatore Francois Chaignaud. È truccato, agghindato con grossi bracciali di nacchere e sonagli, seminudo e in piedi di fronte a una moto da corsa su cui siede, immobile, un’altra figura bardata di tutto punto (lo stunt Cyril Bourny). Ancora, e ora fino al parossismo, è il precipitare dentro un unico spazio della visione di epoche e immaginari distinti: classico e moderno, folklore e asfalto, umano e macchinico.
La scena, se così si può ancora chiamare, è completamente transennata in un ovale: richiamo evidente a corse clandestine di ipotetiche metropoli. Così come, con una tale impostazione, ci ritroviamo dalle parti del perturbante erotismo fra carne e velocità automobilistica descritta nel Crash di Ballard e Cronenberg. Similmente, la coreografia di Chaignaud segue uno spartito che trae le mosse da un’impossibile seduzione: il perfomer si aggira, danzando su alti tacchi, attorno alla moto e al motociclista, prorompe in canti lirico-esasperati accompagnato dalla spinetta, si ingaggia in una sorta di duello fisico col mezzo che ha di fronte e con se stesso, oppone all’immobilismo del suo antagonista/desiderato una fisicità esuberante, quasi atletica, ma al tempo stesso perfettamente controllata e ferocemente virtuosistica. Ed è anche in questo confronto che Radio Vinci Park ci mostra una sorta di inversione della dialettica fra classico e moderno, che compone il sostrato programmatico dello spettacolo: la moto, simbolo futuristico del fascino della corsa e della tecnica, se ne resta ferma mentre l’umano, quasi chiamando a sé innumerevoli tradizioni di folklore e movimento, si sporge oltre i propri limiti, si agita, esplode, si esaspera nel sudore per provare a sedurre o perlomeno a esser sedotto.
È un rodeo, dall’esito forse segnato. Chaignaud infatti dopo tanto tentare si accascia, esausto: qui finalmente il motore si accende e il mezzo si muove, disegna delle traiettorie circolari attorno al performer come uno squalo attorno alla preda, salta sopra il suo corpo con fare quasi sbruffonesco ed esibizionista per poi caricarselo in sella e portarselo via al pari di un trofeo – mentre l’acre odore di marmitta si dipana. L’umano ha perso la sua anacronistica sfida d’amore, la macchina è troppo potente. Ma, forse, l’umano – François Chaignuad, performer ibrido per natura – ha vinto la “battaglia per lo sguardo”: infine per lo spettatore appare chiaro che cosa l’ha sedotto, quale fosse l’architrave che ha retto il rito e l’illusione. Quando questa cade a terra, finisce lo spettacolo – al pari di un rombo di motore che si allontana…
L'autore
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Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.